Felice da Nola

Il “martirio dell’anima” ci rende testimoni
13 gennaio
Si può essere “martiri dell’anima”? Può accadere, quando il mondo s’impone con forza fino a costringerci a rinunciare alla nostra fede, alla nostra identità religiosa. Ecco perché san Felice da Nola, pur non essendo morto a causa della persecuzione anticristiana, è ricordato come martire: quello “dell’anima” è altrettanto atroce di quello del corpo. Ed è lo stesso martirio che tanti credenti oggi subiscono ogni giorno nei luoghi di lavoro, negli spazi della cultura, nelle sedi della vita pubblica. Vissuto tra il III e il IV secolo, Felice era un collaboratore del vescovo di Nola, Massimo, che fu costretto a fuggire a causa delle violenze contro i cristiani dell’Impero romano. Rimasto in città, venne catturato e torturato ma venne liberato miracolosamente da un angelo e portato dal suo vescovo, che, ormai privo di forze, si trovava in un luogo desertico. Riportò quindi Massimo a Nola e riprese il suo ministero sacerdotale grazie a una pausa della persecuzione. Alla ripresa delle violenza, però, Felice si nascose, riuscendo così a sfuggire a una seconda cattura. Nel 313, infine, poté tornare a Nola, naturale candidato alla cattedra episcopale. Egli però rifiutò e non volle nemmeno indietro i beni che gli erano stati sequestrati, preferendo vivere in povertà fino alla morte. La sua storia ci è giunta grazie al racconto di san Paolino da Nola.

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