Paolo ci obbliga a mantenere una distanza critica rispetto al naturaliter christianus di cui parlava Tertulliano. No, Paolo non è spontaneamente cristiano, né lo siamo noi. Egli approda al cristianesimo in un drammatico contromano, quando nulla lo faceva prevedere, che comportò un totale ribaltamento del suo destino. Non è a caso che Luca lo descrive «caduto a terra» (At 22,7), colpito da una cecità funzionale (come se dovesse tornare a imparare cosa significhi vedere) e guidato da altri, per mano (At 22,11); o che la sua storia stessa lo rende oggetto di sorpresa e sconcerto - «Colui che una volta ci perseguitava, ora va annunciando la fede che un tempo voleva distruggere» (Gal 1,23), dicevano i cristiani della Giudea.
Il cristianesimo in Paolo comincia con la necessaria operazione di instaurazione, o di re-instaurazione, del soggetto credente. Così, la lezione di Paolo è che noi non siamo cristiani, ma piuttosto lo diventiamo, e ci obbliga a rompere con il conformismo teologico di un cristianesimo come dato acquisito, che si dà semplicemente per scontato. È vero l'opposto: con Paolo, il credere viene a essere regolato e modellato da un'esperienza di trasformazione. Come egli stesso scrive nella Seconda Lettera ai Corinzi: «Noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine» (2Cor 3,18).