Opinioni

Zan scrive e rassicura sulla «sua» legge. Ma resta il dissenso e il dovere del Senato

Marco Tarquinio sabato 7 novembre 2020

Caro direttore,

a pochi giorni dall’approvazione, alla Camera, della proposta di legge contro misoginia, omolesbobitransfobia e abilismo, le scrivo anzitutto per ringraziarla della copertura che “Avvenire” ha voluto dare ai lavori parlamentari, con costanza ed equilibrio. Credo sia opportuno e necessario, a bocce ferme e in attesa del passaggio al Senato, tornare però su alcuni punti, che restano al centro del dibattito e sui quali purtroppo leggo troppo spesso opinioni fondate su notizie imprecise o addirittura su inammissibili strumentalizzazioni del contenuto della legge.

Mi riferisco, anzitutto, alla prima importante novità introdotta dall’Aula, e cioè la norma relativa alle definizioni di sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere, la cui approvazione consegue a una specifica condizione posta dalla Commissione Affari costituzionali nel proprio parere. La preoccupazione che ci ha guidato nella scrittura della norma è stata quella di fornire ai giudici solidi criteri di orientamento, senza lasciare però indietro nessuna persona. Per questo, ci siamo ispirati non solo a consolidate acquisizioni in campo scientifico, ma anche a precisi riferimenti giuridici, contenuti in norme e sentenze che, negli anni, hanno affinato nozioni e concetti (penso ad esempio alla definizione di “identità di genere”). Allo stesso tempo, abbiamo guardato alla specifica funzione di queste definizioni – che è quella di facilitare l’applicazione di norme destinate al contrasto della discriminazione e della violenza – evitando eccessivi irrigidimenti che avrebbero inevitabilmente determinato il rischio di pericolosi e inammissibili vuoti di tutela. Le condizioni personali e le esperienze di vita che questa legge riconosce e protegge sono aspetti delicati e complessi della dignità personale: per questo, è necessario procedere con estrema cautela, ed è quello che abbiamo fatto.

Un altro punto su cui in Aula si è nuovamente intervenuti è la questione del rapporto tra l’estensione della legge Mancino e la libertà di manifestazione del pensiero, con la riformulazione dell’articolo 3 (oggi articolo 4). Anche in questo caso, ci siamo ispirati a logiche di equilibrio, nel rispetto dei risultati cui è giunta la giurisprudenza in anni di applicazione della stessa legge Mancino. Abbiamo ribadito che la libertà di espressione è fatta salva, così come le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non determinino il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti. E abbiamo ancorato questa clausola di salvaguardia alla finalità antidiscriminatoria della legge. In tutta coscienza, posso dire che non esiste alcun pericolo per la libertà di espressione, che non si introdurrà nessun bavaglio.

Infine, vorrei spendere qualche parola sulla questione del ruolo delle scuole, perché davvero anche su questo ho letto e ascoltato molte imprecisioni. Non si prevede in alcuna parte della legge l’introduzione di fantasmatiche “ore di gender”, né si espongono studentesse e studenti a chissà quali contenuti scabrosi. Si prevede semplicemente che, in occasione della Giornata nazionale contro l’omotransfobia, possano svolgersi nelle scuole iniziative dedicate a richiamare i valori del rispetto e del contrasto delle discriminazioni e della violenza motivate da orientamento sessuale e identità di genere. Valori che, è inutile ribadirlo, discendono direttamente dagli articoli 2 e 3 della Costituzione. Si prevede inoltre che queste iniziative debbano essere coerenti con il piano triennale dell’offerta formativa e con il patto educativo di corresponsabilità: nessuna sostituzione allo specifico ruolo educativo delle famiglie, dunque, ma un intervento perfettamente in linea con il principio di leale collaborazione tra scuola e famiglia nella formazione di cittadine e cittadini liberi, responsabili, solidali, rispettosi delle differenze. Educare al rispetto non lede nessuno, anche quando il rispetto – com’è doveroso – sia diretto verso le persone Lgbtq+. Continuare a ritenere che il coinvolgimento delle scuole in questo tipo di iniziative sia l’anticamera dello Stato Etico è quanto di più lontano ci sia dalla realtà dei fatti, e soprattutto dalla missione civile che la Costituzione stessa assegna alle istituzioni scolastiche.

La proposta di legge approvata è il risultato di un lavoro lungo e faticoso, che è stato guidato dall’attenzione al dialogo e al confronto con le diverse posizioni in campo. Resto convinto che si sia raggiunto un punto di equilibrio capace di tenere assieme la tutela delle vittime di omolesbobitranfobia, misoginia e abilismo e il rispetto del pluralismo culturale che ispira e guida la nostra quotidiana pratica democratica.

Alessandro Zan, deputato e relatore della legge contro la misoginia, l’omotransfobia e l’abilismo


Apprezzo il suo apprezzamento, gentile onorevole Zan, per la qualità dell’informazione che abbiamo garantito sull’iter della proposta di legge che viene indicata proprio col suo nome. Un testo nato «contro l’omotransfobia», mescolando lodevoli intenzioni e rischiose statuizioni, e che strada facendo si è diversamente modulato, precisato e, soprattutto, tramutato in un “convoglio” normativo più articolato, dapprima coinvolgendo le donne vittime di denigrazione, discriminazione e sopraffazione violenta e, quindi, anche quelle verso le persone portatrici di handicap. Per questo la proposta di legge è diventata «contro la misoginia, l’omotransfobia e l’abilismo» (quest’ultimo termine richiama le diverse abilità di alcuni di noi). Davanti a questa evoluzione mi sono chiesto più volte e lo chiedo ora di nuovo, pensando al passaggio del testo approvato alla Camera al Senato, per quale motivo si è deciso di insistere sulla modifica dell’art. 604 bis del codice penale e non si è seguita la via saggiamente indicata da un gran giurista come Cesare Mirabelli di agire sull’art. 61 stabilendo un'aggravante ulteriore oltre a quella “per motivi futili e abietti” e cioè quella per «avere determinato o agito per determinare discriminazioni lesive della dignità e dell’uguaglianza della persona umana». Così – annotava il 3 luglio il presidente emerito della Corte costituzionale, intervistato dal collega Luciano Moia sulle nostre pagine – «non si modifica l’assetto penale ed evitiamo di categorizzare le persone: dignità e uguaglianza sono comportamenti dovuti a tutti, nessuno escluso». Ancora oggi credo che questa sarebbe stata, e possa ancora essere, la strada maestra o, se vuole, per usare una sua espressione, il giusto «punto di equilibrio». Questo se il fine è davvero quello di difendere ogni cittadina e cittadino – soprattutto se in condizioni di fragilità – da discriminazioni e violenze fisiche e morali di qualunque tipo.

Quanto alle obiezioni riproposte dopo il primo sì dell’articolato di legge che porta il suo nome, caro Zan, rispondo ovviamente di quelle argomentate con lucidità su queste colonne da Francesco Ognibene, e le confermo. Sono un limpido e civile punto di dissenso. Proprio per questo prendo atto con interesse delle sua convinzione di deputato relatore che tutto invece sia ormai chiaro e che, sulla base delle norme disegnate e ridisegnate, si agisca solo contro effettivi e gravi abusi di parola e d’azione nei confronti di alcune categorie di cittadini e cittadine e non si corra più il rischio di dare occasione e strumento a denunce intimidatorie, pressioni liberticide, istruzioni disorientanti e violazioni della «leale collaborazione tra scuola e famiglia» nell’educazione di ragazze e ragazzi. Non ne sono convinto, ma ne prendo atto. E stia pur certo che questo significa che durante l’esame in Senato continueremo fare il nostro lavoro d’informazione e a spendere la nostra opinione con coscienza e serietà. Liberamente.