Addio al fondatore dell’Arche. Vanier e il mistero della "forza" debole
Jean Vanier si è spento l’altra notte, dopo parecchi mesi di malattia, vissuta con un grande desiderio di vita, ma anche confrontandosi lucidamente nella fede con l’ombra della morte. Aveva scritto in un testo, pieno di sapienza esistenziale: «Nelle società odierne è impressionante il nesso esistente tra il rifiuto di guardare la morte in faccia e una grande paura della fecondità». Il fondatore dell’Arche e di Foi et Lumière aveva messo la debolezza al centro: l’amicizia con i poveri, i disabili, i feriti della vita. Aveva scelto la debolezza come modalità di presenza nei crocevia del mondo: la fragilità della sua figura simpatica ma spoglia; la povertà e l’amicizia che lo caratterizzavano; la debolezza della parola, senza retorica ma capace di toccare il cuore.
Così, quest’amico dei disabili, instancabile organizzatore della loro convivenza con gli altri, è stato un ascoltato testimone del Vangelo in tante occasioni. Gli scritti che ci lascia manifestano, in parte, l’ampiezza della sua predicazione itinerante nel mondo. Nella debolezza, aveva trovato la chiave di lettura del Vangelo. Citando la “parabola del regno” di Matteo 25, scriveva: «Vivere con il povero è vivere con Gesù». «Gesù è il povero», concludeva. Gioiva del messaggio centrale di papa Francesco sui poveri. Mi ha detto durante il nostro ultimo incontro a Parigi, qualche giorno fa: «Voglio dire forte quanto amo papa Francesco!». Per lui i poveri non sono degli assistiti, ma comunicano il Vangelo con la loro “forza” debole: «Il povero ha un potere misterioso nella sua debolezza, diventa capace di toccare i cuori induriti». In piena sintonia con Francesco, anni prima di questo pontificato, affermava che «i poveri ci evangelizzano. Ecco perché sono il tesoro della Chiesa».
Attraverso un percorso diverso, raggiungeva quanto il teologo ortodosso francese, Olivier Clément, scriveva: i poveri sono un sacramento, perché in essi vive Gesù. E il fondatore dell’Arche ricordava che «il povero guarisce il cuore del ricco». Solo nell’amicizia con i poveri, il nostro mondo ricco potrà trovare la sua guarigione. Questa era anche la sua storia personale. La vita di Jean si era sviluppata nella costante ricerca dell’incontro con Gesù, come dichiarava con semplicità sorprendente.
Ancora anziano, fino alla fine, leggeva e rileggeva il libro su Gesù di José Antonio Pagola, un biblista basco: lo aveva aiutato –confessava – a conoscere meglio colui che aveva cercato, tutta la vita, nei poveri, nell’incontro con gli altri, nelle pagine della Scrittura. Vanier ha più volte raccontato che divenne marinaio inglese, volontario nella guerra (che conobbe nei suoi esiti dolorosi), perché voleva lottare per la pace e la libertà. Ma, nel 1950, si sentì chiamato a lavorare per la pace in altro modo, finché nel 1964 fondò l’Arche. Canadese di nascita, era figlio di un’importante famiglia cristiana, impegnata nella vita pubblica. Suo padre era stato ambasciatore a Parigi e poi governatore generale del Canada.
Da giovane, aveva conosciuto a Parigi, il nunzio Roncalli, il futuro Giovanni XXIII, collega di suo padre, ed era stato suo ospite a Venezia, come amava ricordare. Jean aveva scelto la Francia, come luogo d’irradiazione della sua opera con forte apertura all’universale, come un altro grande “francese” d’elezione, frère Roger Schutz di Taizé. Aveva percorso il mondo per più di mezzo secolo a contatto con le fragilità, approfondendo un carisma di “compassione” per l’altro. Basta prendere in mano un suo piccolo libro, La dépression, per rendersi conto della sua capacità di immedesimarsi nel dolore della ma-lattia depressiva, così diffusa oggi: questa «depressione, questa forza dolorosa e tenebrosa che ci invade nel più profondo del nostro essere e sembra spandersi attraverso il nostro corpo...».
Testimone della compassione, vissuta nel rapporto personale, Vanier aveva seguito preoccupato il crescere degli odi e dei muri: «alla base di ogni muro, la paura», affermava. La sua ricca esperienza dell’umanità del XX e del XXI secolo lo portava a dire quanto il mondo contemporaneo sia carico di paura e, quindi, di violenza. Viveva sul terreno in rapporto stretto con i piccoli, ma aveva uno sguardo largo sullo scenario internazionale con una “geopolitica della compassione”, mai astratta o banale, mai rassegnata, ma partecipe dei dolori nella speranza di un mondo più fraterno. Era convinto che fosse possibile costruirlo, partendo dal piccolo e dall’amicizia, dalla “pietra scartata” che diventa testata d’angolo di una nuova costruzione sociale.
Dopo l’11 settembre, si era sentito sfidato. Lo si vede in un denso libretto sulla pace, in cui denunciava la crescita dei pregiudizi e dei conflitti tra religioni, culture e persone. Allora scriveva con parole che suonano come un testamento di “ottimismo” evangelico: «Il futuro del mondo sta nelle nostre mani. Dipende dal nostro impegno a lavorare insieme con gli altri per la pace. Costruire la pace è riscoprire una visione, un cammino di speranza per tutta l’umanità». Non si è condannati all’impotenza di fronte ai grandi scenari del mondo o a forze soverchianti: dal piccolo, dall’emarginato, dalla scelta quotidiana di ciascuno, parte una forza inarrestabile di pace e trasformazione, quella dei poveri e degli umili.