Ddl Zan. Una legge che non dobbiamo permetterci di sbagliare
Caro direttore,
la maggior parte delle riflessioni che animano il dibattito sul ddl Zan sono di contorno più che di commento profondo, sono poche quelle che affrontano davvero il contenuto del ddl contro l’omotransfobia, a cui sono stati aggiunti i nodi della misoginia e dell’abilismo. Nella foga della difesa delle posizioni contrapposte, pro o contro la cosiddetta cultura del 'gender', spesso si ha la percezione che questo sia il primo dibattito sul tema, mentre andrebbe segnalato che l’Italia non è all’anno zero nel riconoscimento e nella tutela dei diversi orientamenti sessuali e della transessualità.
Nel nostro Paese gli interventi farmacologici e chirurgici a disposizione di quel disagio che, in maniera non più univoca, viene chiamato 'disforia di genere' (il disagio di appartenere psicologicamente a una identità sessuale diversa dal corredo biologico che si è avuto dalla nascita) sono un diritto acquisito e tutelato dal Sistema sanitario nazionale sin dagli anni 90 del secolo scorso. Ai sensi dell’art. 31 del d.lgs. 150/2011 l’intervento chirurgico può inoltre essere autorizzato da un Tribunale per adeguare i caratteri sessuali «quando risulta necessario», e per «necessità» si intendono appunto quelle specifiche del richiedente, non le aspettative culturali della società. Successivamente due sentenze della Corte costituzionale del 2015 hanno chiarito che non è necessaria l’operazione chirurgica perché un uomo possa prendere 'legalmente' i connotati di una donna e viceversa.
L’obiettivo perseguito dai nostri princìpi costituzionali è la libertà dell’individuo di raggiungere il proprio stato di benessere psicofisico senza ledere la libertà degli altri, ed è per questa ragione che di fronte alle nuove frontiere della chimica e della tecnologia medica oggi l’operazione viene già considerata un «diritto» ai sensi dell’articolo 3 della nostra Carta e non semplicemente «una scelta individuale».
Ciò che il cosiddetto ddl Zan intende realizzare, collegando il tema del 'gender' e dell’orientamento sessuale al tema della disabilità, è che nonostante questo diritto sia acquisito nell’ordinamento giuridico italiano esista comunque un certo pregiudizio verso chi lo esercita. La bozza di legge ritiene che sia necessario innovare il codice penale con la previsione di nuove specifiche aggravanti per i reati dovuti a discriminazioni fondate «sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità», allargando l’attuale fattispecie che prevede i motivi già noti ed acclarati delle discriminazioni razziali, etniche e religiose. L’intento è dunque quello di proteggere una categoria di persone con ancora maggior forza, per evitare che il pregiudizio nei loro confronti possa facilitare l’istigazione all’offesa e alla violenza vera e propria. Ma anche un eterosessuale sarebbe ovviamente protetto da questa norma se sente che la sua eterosessualità comporti una qualsivoglia discriminazione.
Dove il confronto si fa più interessante e controverso è agli articoli 4 e 7, nei quali il legislatore lascia il tema della protezione penale ed entra in quello della vera e propria promozione culturale. A leggerlo bene, infatti, l’articolo 4 del disegno depositato al Senato è assolutamente ultroneo: «Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti». Ma una legge dello Stato perché dovrebbe ribadire ciò che è già lapalissiano nella nostra Carta costituzionale, che è legge di rango supremo? Perché il legislatore si prende la briga di rassicurare che è sua intenzione 'fare salve' la libera espressione e le opinioni diverse? È un articolo profondamente sbagliato: abbiamo la Costituzione e ci 'salva' quella, non serve questo ddl per ribadire l’ovvio e aprire a fantasmi, che diventano legittimi, cioè che l’articolo volesse al contrario limitare la libertà di espressione già sancita e tutelata dalla nostra Carta. Se si ripete l’ovvio e si aggiunge una postilla «purché non idonee…» è come riprendere in mano il diritto alla censura o istituire un ipotetico tribunale delle idee sugli orientamenti sessuali, il gender fluid, la transessualità ecc.
L’art. 7 è altrettanto discutibile. Esso istituisce una giornata nazionale «contro l’omofobia», e aggiunge a questa anche la «lesbofobia, la bifobia, la transfobia». Perché? Perché fare un catalogo definitivo delle 'fobie sociali' legate agli orientamenti sessuali? Se la ratio legis è promuovere la logica del rispetto di tutti gli orientamenti sessuali, perché voler chiudere le persone in un catalogo preconfezionato?
Il tema centrale è promuovere il rispetto per le persone che vivono una condizione di sessualità psicologica diversa da quella dell’orientamento biologico apparentemente predeterminato e dalle aspettative culturali di genere, una condizione di vita che può essere principalmente l’omosessualità (che non guarda esclusivamente gli uomini e che abbraccia e comprende anche il lesbismo). Ma che cosa è la bifobia? Perché mio figlio dovrebbe partecipare per legge a una giornata contro la bifobia se nel nomenclatore delle fobie questa non ha nemmeno cittadinanza? È piuttosto importante che si torni a parlare di sessualità nei tempi e nei modi opportuni alla comprensione di un adolescente, senza dover chiudere l’argomento in categorie preconfezionate dalla legge.
Il dibattito è aperto nella stessa comunità lgbt+, non tutte e non tutti vogliono avere delle definizioni che sanciscano i propri limiti all’espressione dell’orientamento sessuale. Non si rischia con le categorie di fare il gioco dell’oca e tornare a far passare ai nostri ragazzi il messaggio che l’uomo e la donna siano tutti da incasellare in categorie e non in una immensa fraternità e sororità?
Come dice Stella Carta in una intervista pubblicata qualche mese fa: «Se abbiamo tutta questa urgenza di definirci, come possiamo essere accettati dalla società? Io sono Stella Carta a prescindere da tutti questi tecnicismi e definizioni» ('FQ Millenium', novembre 2020).
Questo dibattito scaturito dal ddl Zan è un dibattito fondamentale per ricordarci una questione semplice: l’uomo e la donna, e la realtà in cui sono immersi, sono soprattutto un mistero, come afferma il grande pedagogista Edgar Morin: «La nostra realtà spazio-temporale, fisica e biologica, è dunque, evidentemente, un’emergenza di una strana realtà che noi apprendiamo con le nostre parole, i nostri strumenti di rilevamento, di osservazione, di sperimentazione, e che sfugge alla nostra logica» (E. Morin, 'Conoscenza, Ignoranza, Mistero', 2017).
Istituiamo semmai una giornata nazionale 'sull’affettività ed il mistero dell’umanità'. Abbiamo bisogno di tornare a parlare di ignoranza e conoscenza nelle scuole, di apertura e di vitalità del genere umano, di non fissazione dei ruoli di genere, non abbiamo assolutamente bisogno di semplificare il dibattito per legge, riducendolo a una difesa di nuove categorie da promuovere culturalmente in maniera preconfezionata.
Su questi punti dovremmo auspicare tutte e tutti che il dibattito non prenda una piega ideologica, ma che conservi un’impronta di grande apertura culturale, il ddl non è immodificabile, è una grande occasione da non perdere. E soprattutto, visto che si siamo svegliati dal torpore creato dal Covid, dobbiamo conservare questa stessa energia anche per due riforme urgenti e necessarie che languono dal 2018: ius soli-ius culturae e riforma delle carceri.
Presidente della Rete 'Sale della Terra'