Il populismo giudiziario/2. Se il magistrato moralista cerca il processo esemplare
Cos’è, oggi, il 'populismo giudiziario'? Prendiamo la definizione che ne dà il professore Giovanni Fiandaca: un fenomeno che ricorre «tutte le volte in cui un magistrato pretende di assumere un ruolo di autentico rappresentante o interprete dei reali interessi e delle aspettative di giustizia del popolo […] al di là della mediazione formale della legge». Pretendendo quindi di ricevere la legittimazione al proprio operato direttamente dal 'consenso popolare' anziché dalla Costituzione e dalla legge. Una definizione che pare scritta per raccontare quel 'caso Montesi', che qui abbiamo rievocato alcuni giorni fa, ma che ci parla soprattutto dell’oggi. Indagini condotte (e fatte raccontare) avendo come faro la 'popolarità'. Costruzione della figura di un magistrato-tribuno. Infine (tappa non sempre ricorrente ma frequente), investimento di questa immagine sul piano politico.
Tentazione antica. Se è vero che, oltre mezzo secolo fa, Alessandro Galante Garrone, sulle colonne della 'Stampa', metteva in guardia il magistrato dal pericolo di «arrogarsi poteri che non gli spettano, assumendo le funzioni di tutore della morale pubblica o privata». E, commentando la sentenza scritta da un grande giudice (Salvatore Giallombardo) al termine di un processo che aveva destato ampia eco (quello sullo 'scandalo delle banane', denunciato da Ernesto Rossi), ne lodava la capacità di aver saputo distinguere i fatti penalmente rilevanti da quelli che costituivano «deplorevole andazzo amministrativo e politico». Perché compito del giudice «non è assecondare gli impetuosi moti di indignazione e di disgusto dell’opinione pubblica» di fronte al dilagare del malcostume ma piuttosto quello di «sceverare l’illecito penale dal magma indistinto della disonestà».
Tentazione che, a ben vedere, è parente stretta di un irrinunciabile presidio dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge: l’indipendenza della magistratura. Perché l’essere chiamati ad applicare la Legge senza ricevere ordini dall’esecutivo e l’essere legittimati ad esercitare questa funzione in base ad una selezione meritocratica fondata esclusivamente sulla valutazione della preparazione tecnica, giustificano, nel magistrato, un certo orgoglio del proprio mestiere. Ma sappiamo che l’orgoglio è un sentimento pericoloso: perché ha un confine labile col vizio capitale della superbia. Un vizio che, con riferimento ai giudici, un convinto fautore della loro indipendenza, Piero Calamandrei, descriveva come «una specie di albagia professionale» che porta a credere che «solo la magistratura sarebbe degna di esser considerata come un apostolato, mentre l’avvocatura, quella sì, sarebbe soltanto un mestiere». È l’idea, nefasta, di essere moralmente superiore al proprio contraddittore. Con un’aggiunta, rispetto ai tempi di Calamandrei: che, oggi, il contraddittore verso cui si erge questa 'albagia professionale' non è solo l’avvocatura ma anche la politica.
La vicenda storica italiana degli ultimi 40 anni ci ha messo del suo nell’alimentare questo equivoco. Cominciò Bettino Craxi, con il suo celebre discorso alla Camera del 10 luglio 1981, in occasione della fiducia al governo Spadolini: quando il leader socialista, riferendosi all’indagine sul Banco Ambrosiano, parlò di «abusi commessi in nome della legge» e di una «magistratura largamente politicizzata e ideologizzata». Altri coltivarono quel solco. Fino all’altrettanto celebre intervista di Silvio Berlusconi a un quotidiano francese, in cui descriveva le indagini di Mani pulite come un complotto di «giudici che il Partito comunista aveva infiltrato nella magistratura». È anche grazie a questo clima politico che un’intera generazione di magistrati è cresciuta con l’idea che l’affermazione della legalità fosse come la difesa di una cittadella assediata. Perlomeno, ogni volta che le indagini toccavano rappresentanti del potere politico.
E così, accarezzando il mito di eroi civili come Paolo Borsellino e Giovanni Falcone e respirando la temperie culturale di quegli anni, i magistrati che oggi popolano i tribunali e le procure della Repubblica italiane hanno visto crescere l’immagine – diffusa in una fetta importante dell’opinione pubblica – del giudice come unico argine contro un Potere oscuro e a volte criminale. Partendo da questa idea ci si può avventurare su un terreno sdrucciolevole: il convincimento di dovere non soltanto affermare il diritto ma la Giustizia (con la G maiuscola), di dover combattere fenomeni, di moralizzare la società. La storia però ci insegna che coloro che credono di aver trovato le chiavi della Giustizia e della Verità, qualunque sia il campo in cui operano (la politica o la giustizia), sono particolarmente esposti al rischio di pensare di dover affermare la loro Verità senza troppo badare ai modi e ai mezzi. È da qui che nasce la tentazione del 'processo esemplare'. C’è un altro sviluppo di questa confusione: l’idea che al giudice spetti non solo affermare la Giustizia ma addirittura scrivere la Storia. Sappiamo bene che la ricerca storica ha negli atti giudiziari una fonte essenziale. Pensiamo al terrorismo rosso degli anni 70: la sua ricostruzione storica sarebbe impossibile senza attingere alle centinaia di sentenze emesse dai Tribunali.
Il processo però non si celebra – come qualcuno pensa – per 'fare verità storica' ma solo per accertare responsabilità individuali con riferimento a specifici reati. Il pubblico ministero non può aprire un fascicolo per accertare la verità storica di una certa vicenda. E deve raccogliere le prove rispettando vincoli formali e procedurali non conosciuti dallo storico; che, comunque, può ricorrere a fonti assai più ampie di quelle del giudice. L’idea di una funzione 'salvifica' dell’attività del magistrato ha avuto spesso, al suo fianco – ad incoraggiarla e a farle da megafono – un potente alleato: il connubio tra indagini penali e intervento della stampa. Un connubio che abbiamo visto nascere con il 'caso Montesi', quando ancora non c’era la televisione; un connubio che, con l’avvento di quest’ultima, esploderà, negli anni di Mani pulite. E che, con l’invasività del web, caratterizza i giorni nostri. Ma su questo ritorneremo.
(2 - continua) Leggi la prima puntata