Guerre, saccheggi, ingiustizie. Se ci scordiamo l'Africa ci dimentichiamo il futuro
Uno dei fenomeni che si verificano più di frequente nel contesto del sistema informativo globale è il passaggio dalla luce dei riflettori all’oscurità più completa. L’oblio – secondo alcuni studiosi del fenomeno – è la modalità in cui si entra nel momento in cui ci si trova di fronte a una problematica complessa, di non facile soluzione o che richiede una buona dose di applicazione, costanza e visione. È la nostra reazione, il nostro meccanismo di difesa di fronte a una supposta insolubilità della questione.
Un tipico esempio è l’Afghanistan, scomparso dalle nostre cronache all’indomani della seconda presa di Kabul da parte dei Talebani, forse perché, come scriveva Marco Tarquinio domenica scorsa, si è voluto scordare «il drammatico risultato di vent’anni di guerra, mossa dall’Occidente sin dentro i confini di un altro Stato, di montagne di vite e di miliardi di dollari gettati nella fornace del cinismo politico, dell’industria delle armi e della disumanità organizzata».
La dimenticanza riguarda ancor di più l’Africa, il vero continente ignorato dal turbinio mediatico. per “bucare” la cortina di indifferenza e di oblio che la isola dai titoli dei notiziari, i suoi drammi devono essere davvero epocali. Per “catturare” l’opinione pubblica internazionale le sue guerre devono diventare genocidi. Di conseguenza l’Africa sembra molto lontana dall’Europa mentre è il continente più vicino, quello che ci sta di fronte e con cui abbiamo tanta storia recente in comune. L’Africa fa poco notizia, tranne che in alcune testate come “Avvenire”, “Domani”, le riviste missionarie e poche altre eccezioni. Questo è uno dei mille motivi per cui il viaggio pastorale di papa Francesco è stato un fatto straordinario per il continente. L’Africa per qualche giorno è stata oggetto di curiosità e di interesse: si è parlato dei suoi mali, dei conflitti etnici, delle violenze sui civili, del saccheggio del sottosuolo, della corruzione, delle malattie, della povertà. Si è anche detto delle sue grandi risorse e opportunità, dell’abbondanza di materie prime, della giovinezza della popolazione, della voglia di costruire il futuro, dell’impegno di testimoni eroici e di una società civile vivace, di coscienza umana e spirituale. Qualcuno ha osato immaginare il suo riscatto.
Come ha detto il Papa nell’udienza di mercoledì scorso, il viaggio nella Repubblica Democratica del Congo è stato per lui l’incontro con «un diamante, per la sua natura, per le sue risorse, soprattutto per la sua gente; ma questo diamante è diventato motivo di contesa, di violenze, e paradossalmente di impoverimento del popolo. È una dinamica che si riscontra anche in altre regioni africane, e che vale in generale per quel continente colonizzato, sfruttato, saccheggiato. Di fronte a tutto questo ho detto due parole: la prima è negativa: “Basta!” Basta sfruttare l’Africa! Il Signore ascolti il loro grido che invoca pace e giustizia». La tappa a Juba è stata soprattutto un pellegrinaggio di pace: «Il neonato Sud Sudan è vittima della vecchia logica del potere, e della rivalità, che produce guerra, violenze, profughi e sfollati interni. Ed è vergognoso che Paesi cosiddetti civilizzati offrano un aiuto che consiste in armi, armi, armi per fomentare la guerra. Si deve andare avanti dicendo “no” alla corruzione e ai traffici di armi e “sì” all’incontro e al dialogo. Solo così potrà esserci sviluppo, la gente potrà lavorare in pace, i malati curarsi, i bambini andare a scuola».
Francesco è tornato dall’Africa e non se n’è dimenticato. Che ciò avvenga anche ai nostri media e a tutti noi: uscire dal nostro vittimismo egoistico per guardare oltre. C’è un imperativo morale: non possiamo scordarci – nel significato etimologico del termine di “non stare più a cuore” – di quel continente, delle sue angosce e delle sue speranze. Siamo tutti coinvolti, parte in causa, di quanto accade a sud del Mediterraneo, come ha sottolineato il Papa. Che la nostra scelta non sia l’oblio ma un rinnovato senso di responsabilità, di interesse reciproco, di tensione unitiva e costruttiva verso chi, per molte ragioni – fosse solo la crescita demografica – costituisce tanta parte del futuro del nostro mondo.