Scrivere (e amare). Il padre malato che ha lasciato le lettere alla figlia
È stato detto che, di qualunque cosa parli, l’uomo parla sempre della propria morte. Credo si possa intendere anche così: di qualunque cosa parli, l’uomo parla sempre per vincere la propria morte. E credo che si possa allargare il concetto: qualunque cosa faccia, l’uomo la fa sempre per vincere la propria morte.
Un ponte, una casa, una guerra. Anche Hitler faceva la Seconda guerra mondiale per non morire. Poi è morto proprio per quella guerra, dunque c’era un errore nel suo sistema. Per non morire, l’uomo fa figli. I figli sono una polizza per la propria immortalità. Nei figli l’uomo si sente reincarnato, e dai figli spera di essere ricordato. Vorrebbe essere ricordato in tutto: nelle cose che fa, nelle cose che pensa. Vorrebbe che i figli facessero e pensassero le stesse cose, quando lui non ci sarà più. Da qui l’importanza di esprimerle, quelle cose, lasciarle scritte, a memoria futura e possibilmente eterna.
Perché se le lasci 'dette' possono essere manipolate, adattate, in buona o in mala fede, da chi le conserva e le riferisce. Da qui insomma l’importanza del libro, o del quaderno, che è il libro in dimensione domestica. Nella famiglia, il quaderno di pensieri compilato dal padre o dal nonno è un’epopea per i figli: la carta di nobiltà, l’atto fondante della stirpe.
C’è qualcosa che imparenta il gesto del padre, che scrive un quaderno per i figli, con il gesto dello scrittore, che scrive un libro per i posteri? C’è molto: è lo stesso bisogno di vivere dopo che si sarà morti, di sopravvivere, di rinascere in chi nasce dopo, di presenziare ai momenti più importanti nella vita che vive dopo la tua.
Questo padre di cui tutti parlano adesso, morto l’altro giorno di una morte preannunciata e attesa, che ha lasciato per la figlia piccolissima un quaderno stampato, quindi un libro, in cui riunisce diciotto lettere (più una per errore), pensate per i diciotto compleanni della figlia finché diventerà maggiorenne, ha inventato un modo per essere presente anche lui, benché già morto, ai festeggiamenti della bambina-fanciulla-ragazza.
Nei compleanni lei sarà festeggiata e complimentata da tutti, parenti e amici, a turno, ma il momento più emozionante sarà quando arriverà il turno del padre-che-non-c’è-più, e sarà letta la sua lettera. La difficoltà di scrivere queste lettere consiste nello scrivere oggi, a bambina piccolissima, un testo che dovrà essere leggibile domani, quando la bambina sarà una ragazzina e poi una ragazza. È la difficoltà che incontrano tutti gli scrittori: scrivono oggi libri che dovranno essere leggibili domani.
Chi ci riesce, domani è vivo, e il suo libro pure. Chi non ci riesce, addio. Bisogna che chi legge si emozioni. E senta che l’autore è presente. Il padre Andrea Bizzotto, morto l’altro giorno, che ha scritto per la figlia piccolissima questa Storia di un maldestro in bicicletta, vuole che lei «non si senta abbandonata». Il libro ha questo compito. Ora che lui è morto, la madre dichiara: «Se ci fosse stato questo libro quando abbiamo saputo della malattia, avremmo avuto meno paura». Dunque, la morte fa paura, e il libro attenua la paura. Nelle malattie inguaribili, scrivere è una terapia. L’unica.