Da Minniti a Piantedosi: saper tacere. Quelle voci dal sen fuggite
Italia, anno 2017. Marco Minniti: «Sui migranti ho temuto per la tenuta democratica del Paese». Italia, anno 2023. Matteo Piantedosi: «C’è anche il fattore attrattivo di un’opinione pubblica che annovera l’accettazione di questo fenomeno». La loquacità dei ministri dell’Interno non sempre ha giovato ai governi. Soprattutto se la voce dal sen fuggita rivela la vera indole di chi le dà fiato, malcelando la frustrazione per il fallimento dei propositi coltivati. Ed è meglio soprassedere sul profluvio di boutade partorite da Matteo Salvini, che da ministro al Viminale ha lasciato sul campo più parole che passi risolutivi, oltre a qualche malaugurata ricaduta giudiziaria.
Minniti spiegò quel suo tragico incubo alla fine d’agosto del 2017, durante la Festa dell’Unità a Pesaro: « A un certo momento ho temuto che, davanti all’ondata migratoria e alle problematiche di gestione dei flussi avanzate dai sindaci, ci fosse un rischio per la tenuta democratica del Paese. Per questo dovevamo agire come abbiamo fatto non aspettando più gli altri Paesi europei». Che l’Italia fosse una democrazia così fragile da rischiare di smarrirsi in qualche seduzione autoritaria a causa di barconi colmi di un’umanità in fuga lo scoprimmo quell’estate. Quello che non conoscevamo ancora – e ci sarebbero poi voluti due anni di inchieste giornalistiche per venirne a capo – erano gli accordi e gli incontri con certi capibastone nordafricani. Per non dire dei mai chiariti versamenti delle autorità italiane a entità libiche controllate direttamente dai boss del traffico di esseri umani, di armi e di petrolio.
Un metodo che “Avvenire” ha ribattezzato Libyagate e che, purtroppo, ha fatto scuola. Dopo avere legittimato con il nostro aiuto i vari “Bija”, passati dal comando di una motovedetta scassata alla guida dell’accademia militare navale di Tripoli, i libici continuano ad alzare il prezzo. E lasciano fare carriera ad altri sospettati, come l’attuale ministro dell’Interno di Tripoli, Emad el-Trabelsi, ex camionista e capobanda, poi padrone del confine dei contrabbandieri verso la Tunisia e infine capomilizia.
Recentemente lo hanno pescato all'aeroporto di Parigi con mezzo milione di euro in valigia. Quando la gendarmeria lo ha rilasciato, lui è tornato a Tripoli suggerendo ai suoi colleghi di governo di « viaggiare con carte bancarie e non con i contanti». Intanto i clan del deserto libico si autoscagionano, spostando gli affari verso le spiagge tunisine, come su queste pagine hanno raccontato i recenti reportage di Paolo Lambruschi.
Cinque anni dopo, un altro ministro dell’Interno italiano, dopo le sfortunate delucidazioni sul «carico residuale» e quelle ancora più disgraziate sulla «responsabilità» dei genitori migranti che metterebbero incomprensibilmente a repentaglio la vita della loro prole, arriva ad accusare gran parte dell’opinione pubblica italiana di fare da “pull factor”, come direbbero i mestatori di false e allarmistiche notizie da dare in pasto ad elettori più arrabbiati e suggestionabili.
Non riuscendo a provare che le organizzazioni di soccorso facciano da calamita per i barconi, adesso il «fattore attrattivo» sarebbero quegli italiani dal cuore tenero, che magari si gettano tra i flutti per strappare al mare qualche vita, mentre altre – nonostante il senso del dovere e la straordinaria umanità degli uomini di mare in divisa – vanno perdute tra i battibecchi e lo scaricabarile di vari centralini di Stato.
Quando alla lunga i fatti smascherano i proclami, finisce che è sempre colpa di qualcun altro: i soccorritori volontari, i cittadini solidali, oppure la malasorte. Quello che non cambia, per dirla con lo scrittore francese Daniel Pennac, è il capro espiatorio, «colui che di fatto sta morendo annegato nel Mediterraneo». E per il quale le parole non ci sono. E quando ci sono, non bastano mai.