Nel ventre della Parola / 6. Quella comunità libera di profeti rinati con Giona
«Fu rivolta a Giona una seconda volta questa parola del Signore: “Àlzati, va' a Ninive, la grande città, e annuncia loro quanto ti dico”. Giona si alzò e andò a Ninive secondo la parola del Signore» (Giona 2,1-3). Il libro di Giona poteva iniziare con questi primi versi del capitolo 3, che sono i versi delle storie dei profeti che rispondono alla chiamata di Dio ed eseguono il compito loro assegnato. I primi due capitoli sono invece il racconto di un “no” profetico e delle sue conseguenze. Pagine che in genere non vengono scritte né raccontate, perché sono quelle del travaglio interiore e esteriore dei profeti (e nostri). Sono le bruttecopie, le prime versioni dei capitoli scritte, accartocciate e cestinate. E invece quell’anonimo antico autore ci ha voluto donare anche i primi due capitoli. E, forse, non lo ha fatto solo per l’economia narrativa, soltanto per arricchire e abbellire la trama drammatica della storia. I primi due capitoli ci hanno fatto entrare nell’officina delle vocazioni, nei laboratori spesso polverosi dove gli artigiani e gli artisti compongono le loro opere, negli studi disordinati dove gli scrittori generano i loro personaggi (e dove, ogni tanto, i personaggi generano i loro autori).
La Bibbia ci ha portato nella “cella vinaria” della casa di Dio, nell’intimità del dialogo segreto tra Elohim e i suoi profeti. Ce lo ha raccontato con il suo codice narrativo antico, ma che riesce ancora a parlarci - almeno un po’, almeno a qualcuno. E così abbiamo capito che la distanza che separa l’incipit del capitolo 3 da quello del capitolo 1 è lo spazio delle libertà - di quella di Dio e di quella di Giona. È il luogo del tempo e quindi della storia, perché in quei primi due capitoli quel giovane e inesperto profeta è diventato adulto, e lo è diventato nell’unico modo possibile sulla terra: cercando il proprio posto al mondo senza accontentarsi di quello che la vita o Dio avevano pensato per lui.
Nello spazio narrativo etico e spirituale dei primi due capitoli, Giona da figlio di Amittài è diventato Giona profeta; prima era uno dei tanti profeti formati dalle scuole profetiche del Nord, dopo si è trasformato in qualcuno che ha liberamente deciso di occupare il posto che gli era stato già assegnato. E anche quando alla fine si accorgerà che i due posti erano uno solo, quel solo posto al mondo non era più quello di prima: ora lo ha scelto, ha detto di sì ad un destino che dentro quel sì libero è diventato uno spartito scritto e interpretato da Giona insieme a Dio. Ogni vocazione è un incontro di due sì, è un patto tra due gratuità, un matrimonio di due libertà diverse e uguali in dignità.
Chissà se quando Gesù nel vangelo di Luca racconta la parabola del Figliol prodigo non avesse in mente anche Giona (citato spesso nei vangeli). Giona inizia la sua storia con no, va nella direzione opposta a quella buona di casa, finisce in una compagnia sbagliata, lì lo raggiunge una tempesta (carestia), e giunto al termine della sua discesa, dal fondo del porcile “si alzò”, in quegli inferi inverte il corso della sua vita: e ritorna. YHWH non dice nessuna parola mentre Giona partiva. Non gli impedisce di iniziare la sua discesa verso Tarsis, gli lasciò tutta la libertà e tutti i costi di diventare adulto. Come il padre del figliol prodigo, e quando il figlio torna a casa il Padre non gli rivolge nessuna parola di rimprovero: solo abbraccio, anello, sandali, banchetto. Come in Giona: con il capitolo 3 la storia tra Giona e Dio riprende senza nessuna parola di rimprovero né di delusione da parte di YHWH. Due silenzi prima e due silenzi dopo, perché il silenzio è la parola più bella nelle partenze e nei ritorni a casa. Nella parabola di Luca le ghiande dei porcili non sono meno importanti del vitello grasso, perché il valore e il senso dei banchetti di casa si capiscono pienamente solo dopo aver invidiato i porci per le loro ghiande. Come per Giona.
La piccola differenza tra l’inizio del capitolo 1 («Fu rivolta a Giona, figlio di Amittài, questa parola del Signore: “Àlzati, va' a Ninive, la grande città, e in essa proclama che la loro malvagità è salita fino a me”. Giona invece…») e l’inizio del capitolo 3, è tutta racchiusa in quella seconda volta: «Fu rivolta a Giona una seconda volta questa parola del Signore». Questa seconda volta non è la “seconda possibilità” che Dio dà a Giona. È molto di più. È la resurrezione di Giona. Le resurrezioni, le nostre e quella diversa di Gesù, non sono la seconda possibilità donata dalla vita o da qualcuno: sono la vita di ieri che rinasce dopo una morte vera, e poi non muore più (se Giona ci parla ancora è perché ha sconfitto la morte). Senza quel suo “no” improbabile e scandaloso, Giona sarebbe rimasto uno dei tanti profeti di Israele ricordato in poche righe nei Libri dei Re. Quella morte nel ventre del grande pesce generò un altro Giona che quando viene chiamato per “la seconda volta” non è semplicemente il figlio tornato che viene rialzato: è il figlio risorto, vivo ad una vita diversa dopo i “tre giorni” passati nel ventre-sepolcro.
Il banchetto del vitello grasso celebra una resurrezione che era già iniziata nel porcile, il sepolcro inizia a vuotarsi nel grido del Golgota, il sì del secondo Giona era incominciato nel mare verso Tarsis. Ogni giorno, su tutta la terra, ci sono banchetti di resurrezioni celebrate con le ghiande, ma noi non li vediamo e non facciamo festa perché le cerchiamo nel campo di Giuseppe di Arimatea e scappiamo dai Golgota del mondo. Anche nel racconto di Giona c’è il “fratello maggiore”, il personaggio che interpreta la logica meritocratica: siano noi lettori, che ci stupiamo perché Dio non rimprovera né punisce Giona per la sua disobbedienza e gli ridona nuovamente fiducia come se non avesse mai detto il suo “no” - la meritocrazia ci piace molto perché ci offre uno strumento mirabile per condannare i demeriti degli altri: ma il Dio biblico ci ripete: “non nel mio nome”.
Giona del capitolo 3 non è più lo Giona del capitolo 1, ma neanche YWHW è più lo stesso, lo vedremo. Al culmine della sua esperienza teologica e mistica, Meister Eckhart in uno dei suoi sermoni più noti (su “Beati i poveri”) arrivò a dire una frase paradossale e straordinaria: «Prego Dio che mi liberi da Dio»; forse per dirci che per sperimentare la beatitudine dei poveri, la povertà del vangelo deve spingersi fino all’impensabile: arrivare fino alla povertà di Dio. Perdere cioè l’idea di Dio per iniziare l’esperienza di Dio.
I profeti, e anche noi persone comuni, trascorriamo buona parte della nostra vita dialogando con l’idea di Dio, con l’immagine di Dio che ci siamo creati negli anni in perfetta buona fede. Qualche volta, diventando adulti, riusciamo a liberarci dall’idea di Dio (l’adultità spirituale è soprattutto questo) e, evento ancora più raro, può iniziare una nuova vita in un rapporto con Dio liberato dall’idea-idolo-immagine di Dio che avevamo costruito a nostra immagine e somiglianza - è anche questo uno dei significati del comandamento biblico di non farsi immagine di Dio. È difficile che questa povertà spirituale arrivi come ricerca intenzionale e volontaristica: quasi sempre giunge senza averla cercata, in quel giorno in cui la vita ci dona questa povertà lungo il viaggio verso Tarsis. Noi la viviamo come la rovina più grande: dimentichiamo tutto, non sappiamo più pregare, la vita di ieri appare solo inganno e illusione. Ci mettiamo nel fondo della nave, ci addormentiamo e vorremmo solo morire. Non capiamo che quella stiva è la crisalide dove il bruco di ieri sta sbocciando in farfalla. La fuga di Giona ci spiega allora qualcosa di importante dell’esperienza della liberazione dal Dio del mestiere di profeta e della nascita della vocazione profetica, quella che arriva solo dopo la povertà di Dio, quando si fa l’esperienza fondamentale della “castità spirituale” essenziale ai profeti, perché in sua mancanza diventano padroni della voce che li abita.
La prima parola di YHWH a Giona fu l’ordine di un sovrano rivolto ad un suo funzionario di corte; la seconda parola fu una vocazione, chiamata rivolta ad un uomo “risorto” adulto libero nel ventre buono del mare. Molte vocazioni non si compiono perché si risponde “sì” subito e si resta tutta la vita nel “mestiere” profetico, senza risorgere; altre vengono bloccate da amici e accompagnatori che preoccupati per le conseguenze della disobbedienza gli sbarrano la porta di casa e la vita trascorre in un costante rimpianto di una libertà negata; qualcuno scappa ma affonda durante la tempesta, perché semplicemente la nave cola a picco e la vita non gli dà il tempo di fare il viaggio di ritorno; altri una volta salvati dal pesce fanno diventare il suo ventre la loro “confort zone” calda e comoda e non tornano più sulla terra a riprendere, nomadi, la corsa libera e povera verso Ninive. Ma quelli che riescono ad arrivare alla seconda chiamata entrano a far parte della comunità libera dei profeti risorti, che ci salvano ogni giorno dalle distruzioni imminenti della nostra città.
«Ninive era una città molto grande, larga tre giornate di cammino. Giona cominciò a percorrere la città per un giorno di cammino e predicava: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta”» (3,3-4). Giona giunge a Ninive. Qui svolge il suo compito profetico. Proclama il suo messaggio che l’autore lascia ambivalente: potrebbe significare che a Ninive restano solo quaranta giorni e poi sarà distrutta, ma anche che la gente di Ninive ha ancora quaranta giorni per convertirsi ed evitare la distruzione. È probabile che Giona pensasse al primo significato (i profeti non sempre amano il messaggio che annunciano), ma il testo ci dice chiaramente come lo interpretarono gli abitanti di Ninive: «I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli» (3, 5). Quegli abitanti credettero a Dio, e si convertirono. Credettero quindi a Giona, pensarono che fosse un profeta vero. Ed ebbero ragione. Non potevano sapere del “no”, della nave per Tarsis, della tempesta, del grande pesce. Ma noi lo sappiamo, e ringraziamo quell’antico autore per avercelo raccontato.
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