Botta e risposta. La Milano che stenta a vedere e a curare il dolore e l'emarginazione
Gentile direttore,
ho letto con attenzione il commento di Marina Corradi sul bimbo milanese ucciso dalle botte del padre (“Avvenire”, 24 maggio 2019). Sono madre di tre figli, dai 12 ai 4 anni, e quella notizia mi pesa sul cuore molto più di un macigno. La sua collega si chiede «dov’era Milano, intanto, e perché nessuno prima è intervenuto, permettendo il calvario di un bambino di due anni e mezzo». Questa domanda me la sono fatta anche io, tante volte, quando ho visto bambini piccoli buttati in mezzo alla strada accanto a (presunti) genitori che se ne servono per l’accattonaggio o per vendere ai semafori o lungo le spiagge. Quando ho provato a chiamare polizia municipale o carabinieri per segnalare un bambino in quelle condizioni, mi sono trovata di fronte operatori scoraggiati, quasi mi volessero dire: “Signora, ma che possiamo fare?”. I servizi sociali sono così solerti in certe occasioni! Una mia a- mica è stata seguita per un anno dai servizi sociali per due accessi ravvicinati al pronto soccorso: uno per lei che si era ferita lavorando in campagna e un altro per uno dei figli che si era fratturato un braccio giocando. È una famiglia molto in gamba, dove lavorano entrambi i genitori, attenta ai figli, che sono bravi a a scuola, puliti, educati. Ma i servizi sociali sono subito entrati in allarme perché lei è straniera e ha quattro figli! Allora mi chiedo: nessuno ha “visto” una ragazza rom di 23 anni con tre figli e incinta del quarto, borseggiatrice, con un marito altrettanto giovane e con nessun lavoro? Nessun servizio sociale “vede” questi bambini spesso maltrattati alla luce del sole? Nessun servizio sociale “vede” i bambini che fanno accattonaggio o fanno i venditori ambulanti? Che società civile è questa? La ringrazio per l’attenzione che il suo giornale rivolge a temi così importanti.
Nei giorni scorsi, mentre i media davano giustamente risalto alla morte di Leonardo, due anni, ucciso in casa sua a Novara, anche io sono tornata a pensare a Mehmed, due anni e mezzo e un uguale tragico destino: picchiato a sangue da suo padre in una casa occupata a San Siro, e forse, dicono gli inquirenti, da molto tempo maltrattato. Ma per Mehmed, che era un bambino rom, non ho visto una commozione come per Leonardo. I giornali hanno scritto che il giovane padre è un piccolo pregiudicato, che la giovanissima mamma ha tre figli e aspetta il quarto, ed è «conosciuta come borseggiatrice». Quindi la polizia milanese conosceva quei due giovani che vivevano di espedienti, con tre figli, e uno in arrivo. Un piccolo appartamento occupato in uno stabile popolare, i bambini sporchi e abbandonati a se stessi. Da quanto Mehmed portava sulle braccia i segni delle percosse già inflitte? La mamma “lavorava” sul metrò. Andava a rubare. Ma nessuno, vigile, assistente sociale, che abbia mai fatto caso a quella donna incinta, che magari a volte si trascinava dietro uno dei figli? Mille telecamere scrutano la nostra città ogni giorno, ma ci sono evidentemente degli invisibili. Condivido, insomma, le domande che si fa la signora Valentini, anche io ho notato che i servizi sociali sono pronti e vigili nelle situazioni di apparente normalità, con famiglie che non hanno lo sfratto e i cui figli vanno a scuola regolarmente. Se appena hanno un dubbio vanno a controllare, e fanno bene. Ma si direbbe invece che gli stessi Servizi fatichino a affrontare coloro che vivono senza tetto regolare né legge. Come se, a tali livelli di disagio, fossero impotenti. So che non è tutto così, ma è anche così. Immagino, comunque, che nelle case occupate i Servizi sociali siano di casa, è il loro mestiere e per tanti operatori è una missione. Ma allora, se quei tre fratellini erano abbandonati a se stessi, perché nessuno è intervenuto? I figli non sono cosa che appartiene ai genitori, e non c’è etnia o cultura che superi questo principio di civiltà prima che di cittadinanza. Ogni bambino ha diritto di essere nutrito, curato, mandato a scuola. O, forse, certi bambini non ci riguardano? Mi chiedo se la tragedia del piccolo ucciso a San Siro non sia il segno di un’altra Milano, parallela a quella lavoratrice, convulsa, scintillante nelle vie “giuste”, quella Milano che si vanta di essere l’Italia migliore. Poi però non va a bussare alla porta di una casa occupata da cui vengono voci di bambini, e troppo raramente quella di una madre, di un padre. Grida vengono da quella casa, invece, e pianti. Ma i vicini non ci fanno caso, e nessuno va a suonare il campanello. Fino a un’alba in cui è troppo tardi: per terra c’è un piccolo corpo esanime, straziato. Una Milano che non si china sui Mehmed non è più quella città che era famosa, in tempi ben più poveri, per sapere usare anche il cuore. E i cristalli lucenti di City Life e Porta Nuova, e le schiere di stranieri vogliosi di Made in Italy che sciamano in Galleria non possono farcene dimenticare.