Droga. Fentanyl, il piano del governo e la prevenzione come cura
Che bella, la parola prevenzione. E che bello nel Paese dei ritardi cronici – dove la messa in sicurezza delle infrastrutture inizia dopo che i ponti sono crollati, quella dei territori dopo le alluvioni, le strette sulle violenze di genere dopo i femminicidi – avere un “Piano di prevenzione” su un tema cruciale come quello delle droghe.
A presentarlo il governo, ponendo la lente su una dimensione specifica del problema che Avvenire, tra i primi, ha documentato attraverso reportage e inchieste: quella del Fentanyl e delle sostanze sintetiche. Responsabili negli Stati Uniti di una delle più grandi emergenze sanitarie che la storia recente abbia conosciuto: oltre un milione di morti in due decenni, un decesso ogni 5 minuti. I numeri di una guerra devastante, combattuta lontano dai fronti che oggi scuotono il Pianeta, e per la quale, non da meno, andrebbe cercata una soluzione di pace.
Del Fentanyl in Europa e nel nostro Paese – finora – solo una minuscola traccia: meno di 200 le morti documentate (concentrate soprattutto in Germania), scarsa presenza della sostanza nel mercato illegale italiano (sequestri e overdose si contano sulle dita di due mani) e soprattutto impercepibile coinvolgimento dei giovani, i più colpiti invece, in generale, dall’epidemia delle dipendenze.
Semplice fortuna, secondo alcuni: il business del narcotraffico internazionale non avrebbe interesse a trasferire il suo mercato di qua dall’Atlantico, visto il diverso meccanismo della domanda e dell’offerta di sostanze. Questione di tempo, per altri: quell’interesse è destinato a crescere, complice il taglio della produzione di oppio nei campi dell’Afghanistan. In ogni caso, e torniamo al principio, la prevenzione è una buona notizia: per una volta ci muoviamo in anticipo, perché quel che è successo altrove non accada anche da noi.
Come ci muoviamo? Anzitutto con più controlli e pene più severe per chi dovesse essere sorpreso a spacciare, in linea con altre “strette” dell’esecutivo, non solo in questo ambito. Poi con un percorso di formazione destinato alle forze dell’ordine, agli operatori sanitari e agli insegnanti, ancora tutto da definire nel concreto, come il coinvolgimento del mondo dei servizi e delle comunità. Sono questi ultimi, va ricordato, i veri attori della prevenzione sul campo e della cura di chi viene risucchiato nel vortice delle dipendenze.
E “prevenzione” invocano da anni, spesso inascoltati se non disarmati, almeno da quando il Fondo antidroga è stato azzerato e le (poche) risorse destinate al comparto sono confluite altrove, nel grande calderone delle emergenze sociali. Di prevenzione c’era e c’è dunque bisogno ben oltre il Fentanyl, in un’Italia i cui ragazzi sempre più spesso – e sempre prima – sono devastati dalle dipendenze da alcol, cibo, gioco.
Sostanze libere e legali, che per altro ci ricordano quanto il dibattito politico sulla legalizzazione della cannabis sia sterile, oltre che sradicato dalla realtà e anacronistico. Di prevenzione, ancora, c’è bisogno sotto la forma di educatori specializzati, di strutture al passo coi protocolli scientifici ormai affermati ovunque, di percorsi strutturali e continuativi all’interno dei quali le dipendenze (e le tossicodipendenze in particolare) siano trattate non a spot.
Il Fentanyl, col suo Piano dedicato, è pertanto anche una buona occasione per non mettere (non mettere più) al centro la droga soltanto – la sua letalità, il consumo, lo spaccio – ma le persone. Ce lo hanno insegnato i padri del sistema dei servizi e delle comunità nel nostro Paese (molti sono stati sacerdoti), nato quando in Italia si moriva di eroina agli angoli delle strade, negli anni Ottanta, e i tossici facevano paura perché si vedevano, come si vedono oggi nelle metropoli degli Stati Uniti. Allora si decise di accoglierli, di guardare dentro le loro storie, di capire da quali bisogni e da quali domande era nata la loro dipendenza, ricostruendo i loro percorsi di vita oltre che la loro salute.
Educazione, prima che disintossicazione. Quel sistema divenne modelli internazionale. Lo Stato ne riconobbe il merito, poi gradualmente si adagiò sul fatto che i servizi e le comunità se ne occupassero da soli, lontano dagli occhi. E quando i tossici sparirono dalle strade, sparirono troppo spesso anche per lo Stato.
Oggi le dipendenze travolgono i nostri figli soprattutto online, numeri e ricerche confermano che mancano loro riferimenti, spazi e ascolto, indicano che dopo il Covid i ragazzi sono sprofondati nell’abisso della solitudine e della sofferenza. Se vogliamo intervenire, se vogliamo prevenire, non possiamo fermarci all’allarme Fentanyl e a tenere le strade e le piazze “pulite”. Il mondo di chi coi ragazzi feriti lavora ogni giorno ha esperienza e proposte. Va ascoltato.