8 marzo per Idlib. Io, ebrea, a San Pietro per le vittime e l'Europa
Fuga di massa da Iblid bombardata, in una foto scattata il 30 gennaio
«Avvertiamo l’urgenza di manifestare la nostra gratitudine a papa Francesco e dimostrare al mondo che il suo appello per questa umanità abbandonata e tradita non è caduto nel vuoto. Questi nostri fratelli e sorelle di Idlib non possono essere dimenticati. Perciò domenica 8 marzo, un gruppo di noi alle 12, nel pieno rispetto di ogni misura di sicurezza, sarà in piazza San Pietro alla recita dell’Angelus». Si conclude così l’appello – lanciato da Associazione Giornalisti amici di padre Dall’Oglio, Amnesty International Italia, Caritas Italiana, Centro Astalli, Comunità di Sant’Egidio, Coordinamento dei Siriani Liberi di Milano, Focsiv, Siria Libera e Democratica, Ucoii, Magis-Movimento e azione dei Gesuiti italiani per lo sviluppo, Ucsi, Articolo 21, Associazione culturale islamica in Italia, Comunità siriana in Umbria, Fesmi-Federazione della stampa missionaria italiana, Fondazione Migrantes, Associazione Educatori senza frontiere, Associazione Francesco Realmonte, Coe, Comitato Collegamento di Cattolici per una Civiltà dell’Amore, Cvx, Engim-Ente Nazionale Giuseppini del Murialdo, Fondazione Exodus, Masci Italia, Movimento Shalom, Pax Christi e da illustri personalità – pubblicato il 5 marzo su "Avvenire" con l’invito, firmato e rilanciato dal direttore Marco Tarquinio, per chi non potrà esserci, a esporre una luce o a seguire la preghiera in tv. (Qui l’elenco completo anche delle firme individuali).
Caro direttore,
molti dicono e scrivono in questi giorni che l’Europa è morta a Idlib. Il senso di questa frase è lo stesso di quando, nel 1938, si diceva che il mondo era morto a Monaco o ad Evian: il senso di una catastrofe che tocca milioni di persone nell’indifferenza di tutti. I bambini che muoiono di freddo, di fame, delle ferite provocate dalle bombe. Le frontiere che si chiudono davanti a chi fugge, a chi muore. A differenza di allora, oggi li vediamo, questi profughi, questi bambini morenti. La tv ce li mostra, i loro volti piangenti ci guardano dai social. Ma ci abbiamo fatto l’abitudine e la nostra indifferenza è forse ancora più forte, la distanza fra il nostro mondo, dove i nostri figli sono protetti persino nel tempo del coronavirus, e il loro mondo colpito dalle bombe e dalla morte è ancora più grande che nei disastri del passato. «Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case… », ci aveva già ammonito Primo Levi. Siamo consapevoli che potremmo fare qualcosa, batterci contro quanti, come Assad in Siria, massacrano il loro stesso popolo. E anche che basterebbe abbassare di poco il livello del nostro benessere per fare posto alle vittime di questa catastrofe, abbattendo i muri che le respingono. Ma non ci interessa.
Per questo io, ebrea, ho dato la mia adesione all’appello di chi, l’8 marzo, Giornata della donna, andrà in Piazza San Pietro per ricordare i «dimenticati di Idlib», in primo luogo le donne, le madri di quei bambini che continuano a morire mentre scrivo. Perché papa Francesco, unico fra i potenti del mondo, li ha ricordati e continua a ricordarli. E scrivo a lei perché sul suo giornale trovo denunce puntuali di questa terribile vicenda, di un massacro che è il momento forse estremo di una guerra terribile, incompresa e cancellata, che dura da tanti anni e ha provocato tanti morti tra i civili.
L’Europa è morta a Idlib per tutte queste ragioni, e io, proprio perché ebrea, non dimentico che ricordando i dimenticati di Idlib ricordiamo anche che questa Europa è nata dalle macerie materiali, etiche e anche religiose della Seconda guerra mondiale e dei suoi campi di sterminio. Che è nata per impedire che succedesse di nuovo. Per abbattere le frontiere, non per rialzarle. Per praticare i valori della democrazia, del rispetto dell’altro, del dialogo, non per esaltare le barriere tra le nazioni e l’odio fra i popoli. Se non riusciremo a fermare il massacro di Idlib, l’Europa avrà perso, forse definitivamente, la sua battaglia. Per la seconda volta, dopo Srebrenica. Due volte di troppo.
Storica, Università La Sapienza