Il caso serio di aborto e generatività. Non sprecare la scossa Usa
Con il ribaltamento della sentenza Roe vs Wade la Corte Suprema americana ha riaperto il dibattito pubblico internazionale sull’aborto, costringendo la politica (e la società) a occuparsene, e non solo negli Usa. Come noto, i giudici statunitensi hanno stabilito che spetta ai legislatori, al Congresso e alle assemblee dei singoli Stati dell’Unione, regolare l’interruzione volontaria di gravidanza, togliendo cioè il diritto all’aborto come diritto individuale e privato stabilito per tutta la federazione dalla sentenza nel 1973 (e sempre confermata, successivamente, finora).
Adesso quindi negli Usa di aborto si dovrà parlare per decidere, necessariamente, e poiché era stata quella sentenza a far scattare l’effetto domino che lo ha legalizzato in gran parte del mondo, il suo capovolgimento non può lasciare nessuno indifferente, comunque la si pensi in merito. Ed è bene che si riapra un confronto pubblico sul tema, purché il più lontano possibile da ideologismi e radicalizzazioni che purtroppo già si leggono, si ascoltano e si vedono (anche in piazze ribollenti), ma sono dannosi per tutti: il rovesciamento della Roe vs Wade non può essere letto come un incidente di percorso a cui rimediare con una futura diversa maggioranza alla Corte Suprema. Sarebbe miope fermarsi a questa lettura: il rovesciamento è avvenuto, sì, per spinta politico-giudiziaria, ma anche perché il mondo sta cambiando e può cambiare di più e meglio.
In questi cinquanta anni l’aborto è stato di fatto vissuto da (quasi) tutte e tutti come un diritto, anche dove le stesse leggi non lo definivano come tale (come in Italia) e la politica, una volta regolamentato l’accesso, se ne è sostanzialmente disinteressata. Abbiamo assistito in Italia, ciclicamente, a campagne strumentali come quelle contro l’obiezione di coscienza e a favore della pillola abortiva, ma nelle aule parlamentari e dei consessi di governo locale la questione aborto non è mai stata veramente affrontata nel merito: non si è mai discusso veramente e serenamente di come poter renderne residuale il ricorso, fino a "svuotare" la legge della tragedia che contiene e che bisogna contenere sino a far sparire, come ha scritto Marco Tarquinio, il direttore di questo giornale.
Eppure, almeno a parole, tutti, sia i sostenitori sia i detrattori delle leggi in vigore, riconoscono l’aborto come un fatto estremamente negativo nella vita di una donna, da evitare. E ormai a parlare del concepito come di un "grumo di cellule" sono soltanto alcuni irriducibili, questi sì, residuali: non serve scomodare le frontiere del progresso scientifico, è sufficiente guardare un’ecografia, anche nelle prime settimane di gravidanza, perché chiunque possa riconoscere una vita umana nel grembo materno. Ma nel frattempo i metodi farmacologici stanno velocemente cambiando l’aborto, non solo in Italia; lo trasformano da problema sociale a invisibile atto medico, portandolo di nuovo nel privato del proprio domicilio e alleggerendone il peso organizzativo ed economico nelle strutture pubbliche: l’aborto non deve più disturbare.
E non si può parlare di aborto senza allargare lo sguardo alla maternità nel suo complesso, sotto attacco come non mai, ai nostri tempi. Dalle gestazioni a pagamento con regolare contratto di surroga al commercio di gameti, passando per bislacche teorizzazioni circa "madri malevole", utilizzate come randelli nei tribunali, fino alla surreale discussione pubblica sulla definizione di chi sia una donna, quasi fosse un concetto astratto: troppo porta allo svilimento della maternità, e il gelo demografico che stiamo vivendo nel ricco Nord del mondo è il drammatico, complessivo risultato di tutto questo.