Opinioni

Botta e risposta. Possiamo dirci tutti filosofi. Non tutti però valgono per il podio

Andrea Lavazza mercoledì 1 dicembre 2021

Caro direttore,
nel recente Forum pubblicato su 'Avvenire.it' ('Covid, il ruolo della buona filosofia dopo Agamben/ Cacciari' ) Giovanni Boniolo (Università di Ferrara) e Lisa Bortolotti (Università di Birmingham), sollecitati da Andrea Lavazza, hanno discusso del ruolo del filosofo, soprattutto nel nostro tempo caratterizzato dalla pandemia. Gli esiti della conversazione generano alcune perplessità. La prima dove Boniolo (con Bortolotti) afferma che «l’autorevolezza filosofica non è auto-decisa o decisa dai mass media o dai social, o dalla propria claque di fan, ma dai pari, ossia dalla comunità dei filosofi cui si appartiene». Il problema sta nel fatto che queste affermazioni suppongono, da un lato, che quella di filosofo sia una professione, al pari di quella di avvocato, cosa che non è; e, dall’altro, che ci sia una comunità legittimata a distribuire una sorta di patentino di accesso al clan dei filosofi, cosa che parimenti non è. Qui non si distingue il professore di filosofia dal filosofo. Quelle osservazioni si adattano infatti al primo, ma non al secondo. Il professore di filosofia riceve lo stipendio dall’Università, parte di una struttura deputata alla trasmissione del sapere filosofico e della sua evoluzione storica. Tuttavia, non è detto sia un filosofo. Può accadere (per esempio, Hegel), ma più spesso non accade per il motivo che a essere filosofo è chiamato ogni uomo, per il solo fatto che si ponga domande pertinenti, ricercando possibili risposte. Filosofare infatti significa saper usare la ragione che è a disposizione di tutti, essendo il più democratico dei beni dal cielo elargiti ai mortali. Se identificassimo il filosofo col professore di filosofia, dovremmo negarne il ruolo a Kierkegaard, il quale temeva l’uso che del suo pensiero avrebbero fatto i professori; a Edith Stein, la quale, per pensare, rinunciò al ruolo di assistente di Husserl; a Croce, il quale, chiamato professore, si offendeva. Ne viene che ciascuno di noi è votato al pensiero, che certo va disciplinato. Ovviamente non esiste un circolo che dispensi patenti sul buon uso del pensiero, bastando la capacità nel comprendere ciò che accade nel mondo. Questo pensiero filosofico pensa per gli altri e mai per una comunità di appartenenza. Sicché, la buona o la cattiva filosofia non dipende, al contrario di quanto da Boniolo sostenuto, dal giudizio di nessuna comunità, ma da quello di coloro ai quali quel pensiero si riferisca (i minatori sardi o Solidarnosc): nessuno saprà mai, meglio di loro, se la loro vita sia stata compresa da quel pensiero oppure no. Il secondo aspetto sconcertante sta in altre affermazioni di Boniolo, secondo cui ad Agamben e a Cacciari sarebbe stato dato un podio da cui parlare «con grave danno per la società», per cui «non sarebbe da escludere di censurarli in modo deciso». Ora, a parte il fatto che i due filosofi si son limitati a criticare la gestione politica della pandemia, spero si tratti di uno scivolone inavvertito e non dell’intento di censurare un non-esperto. Si pretende che di scuola parlino solo gli insegnanti e di giustizia solo gli avvocati? Il peggior nemico della democrazia è la tecnocrazia: la prima parte dal presupposto che ogni uomo sia capace di ragionare su ogni cosa: la seconda che lo siano solo gli esperti. Dio ce ne guardi. Come ammoniva Paul Valéry, l’esperto è uno che «sbaglia, ma secondo le regole».

Vincenzo Vitale Avvocato e docente universitario, presidente Ugci Catania


Ringrazio il professor Vitale per la sua stimolante lettera, che il direttore mi affida per una risposta (che non impegna gli altri interlocutori del Forum). Circa il primo punto, ovvero, per brevità, la 'patente di filosofo', ritengo si debbano fare alcune specificazioni: terminologiche, storiche e normative. Innanzi tutto, se si decide di chiamare qualcuno 'filosofo', significa che gli si vuole attribuire una qualità o una proprietà particolare, non comune a tutti. Infatti, è vero che ciascuno può esercitare la ragione, ma se tutti fossimo naturalmente filosofi, sarebbe inutile evidenziare la qualifica. Di conseguenza, tale qualifica deve avere un valore ed essere basata su qualche criterio, altrimenti sarebbe arbitraria e, di nuovo, inutile e non informativa. Porsi domande e provare a darsi risposte non sembra un criterio sufficientemente discriminante. Saremmo infatti tutti, o quasi, filosofi.

C’è dunque qualcosa in più: un esercizio strutturato e coerente della ragione applicato a un largo spettro di temi. Chi dedica più tempo a questo compito avrà probabilmente migliori risultati, e ciò porta alla specializzazione e alla professionalizzazione. Non sempre questo è avvenuto e avviene nella cornice dell’accademia, anche se oggi le università sono un modello affermato a livello globale. Ciò fa sì che si crei una comunità con un proprio linguaggio tecnico e propri luoghi di scambio intellettuale (le riviste, i libri, i convegni) riconosciuti mutuamente dai partecipanti. In questo ambito, Kierkegaard, Stein o qualche moderno outsider possono essere senz’altro annoverati tra i 'filosofi', dove l’inclusione (o l’esclusione) non è questione di 'permessi' o di benefici concessi o negati direttamente, bensì la constatazione che quel pensatore ha una certa formazione, pubblica su certe riviste scientifiche, viene citato e invitato da altri studiosi o ha almeno un seguito presso una parte del pubblico colto.

Questi sono i 'filosofi', che oggi per lo più sono anche professori di filosofia, ma questa circostanza storica non è particolarmente rilevante. Quando si tratta di qualificare qualcuno come 'filosofo' davanti all’opinione pubblica, cioè come un esperto nell’uso della ragione, i mass media dovrebbero avere la responsabilità di indicare proprio coloro che la comunità filosofica ritiene tali. Vi possono essere studiosi emergenti, ai margini o controversi, ma saranno sempre poche eccezioni. Negli altri casi, rimane lecito chiamare 'filosofo' chi non lo è, seppure pensoso e brillante: non è un reato, ma costituisce una scorrettezza intellettuale e un cattivo servizio alla collettività. Nel caso della pandemia da Covid-19 – e qui vengo al secondo punto legato al diritto di parola – affidare il microfono a chi non ha competenze o sfida le conoscenze diffuse e ben confermate (almeno provvisoriamente) può rappresentare una scelta pericolosa per la salute di tante persone. Di qui il dibattito sul negare il podio a chi diffonde idee pericolose (in inglese, 'no-platforming').

Personalmente, sono contrario a ogni censura e penso che la libertà di espressione sia una delle basi della nostra civiltà. Questo però non significa che tutti senza alcuna regola possano accedere alle maggiori tribune. Si tratta di un tema estremamente delicato sul quale, ovviamente, ciascuno ha diritto di manifestare la propria opinione (siano Agamben o Boniolo), meglio se motivata e basata su fatti acclarati. Proprio in questi ambiti la filosofia come disciplina scientifica ha un ruolo importante da svolgere, a patto che sia filosofia passata al vaglio di una comunità di ricerca aperta, inclusiva e tollerante, ma intellettualmente rigorosa e selettiva. Per il bene di tutti, filosofi e non filosofi.