Opinioni

Non ci sono più eroi a Rio. Gli indizi di un patto contro Lula

Lucia Capuzzi mercoledì 12 giugno 2019

«È solo l’inizio». Scrive così il portale di inchiesta The Intercept nel diffondere la prima selezione di messaggi scambiati tra il giudice Sergio Moro e il pool di pubblici ministeri dell’inchiesta Lava Jato. Testi brevi e lunghi, diffusi attraverso Telegram, in cui l’ex magistrato e ora ministro della Giustizia del presidente Jair Bolsonaro sembra "consigliare" gli inquirenti sul modo di condurre le indagini. In particolare, riguardo al più scottante dei casi affrontati: l’accusa di corruzione e riciclaggio nei confronti di Inácio Luiz Lula da Silva. È ancora presto per dire con assoluta certezza se tali conversazioni siano vere - per quanto finora gli interessati non le abbiano smentite - e pienamente attendibili. A guidare The Intercept è Glenn Greenwald, l’uomo che aiutò Edward Snowden a rendere noti i documenti segreti della Nsa. Di certo, però, la pubblicazione di The Intercept del 9 giugno non è l’inizio, bensì un nuovo atto della tragedia politica brasiliana. Il processo è in atto da alcuni anni e ha avuto come effetto più vistoso la crisi della democrazia del Gigante del sud.

Una decadenza cominciata proprio quando quest’ultima stava compiendo un salto di qualità, provando a correggere l’antico peccato brasiliano della feroce diseguaglianza. L’intento, caratterizzante la presidenza Lula e, in parte, quella della delfina Dilma Rousseff, di dare ai cittadini non solo il diritto di voto ma anche quello a una vita minimamente degna è stato indubbiamente importante. Una democrazia in cui i tre quarti dei cittadini vivono in miseria, separati in casa – nelle favelas – dal resto della società, è una democrazia mutilata. Il programma lulista, però, non si è accompagnato a un progetto più ampio di riforma del sistema, per sradicare il «grande male» brasiliano: la corruzione. A favorirla è l’estrema frammentazione dello spettro politico brasiliano per cui nessun esecutivo ha mai, in Parlamento, i numeri per governare. Il negoziato trasparente per ottenerli si è trasformato in becero scambio di favori e di denaro. Una malattia di cui soffre la sinistra come la destra.

Il Partido dos trabalhadores aveva avuto chiare avvisaglie, già nel 2005, di quanto la questione lo riguardasse, con lo scandalo Mensalão, quando il Pt venne accusato di compravendita illegale di voti. Allora, però, era il periodo del boom, quando l’economia del Gigante galoppava al ritmo del prezzo internazionale delle materie prime. La rabbia cittadina si spense rapidamente nell’entusiasmo della "festa" e prevalse il vecchio motto: «Rouba mas faz» (ruba ma fa).

L’inchiesta Lava Jato, al contrario, è iniziata quasi un decennio dopo, quando già incalzava la recessione. La gente ha compreso sulla propria pelle quanto il giro di mazzette e gli scambi di favori segreti tra politici d’ogni schieramento e imprenditori pesasse sulla vita comune, sottraendole risorse. A quel punto, l’ira popolare è esplosa con virulenza. Da questa spinta, forse, il sistema avrebbe potuto trarre la forza per rigenerarsi. Se – come invece è accaduto – media, leader di partito e reti sociali non l’avessero aizzata e manipolata, per indirizzarla contro i rivali. Veleni e contro-veleni, reali e presunti, diffusi ad arte, hanno finito con il corrodere le basi stesse delle democrazia brasiliana. A 31 anni dalla fine delle dittatura, mai le istituzioni avevano goduto di un consenso tanto basso. Lo ha dimostrato l’astensione record alle ultime presidenziali. E la vittoria del candidato, Jair Bolsonaro che, con maggior spregiudicatezza, ha puntato sull’antipolitica, venata di populismo radicale.

Nel gioco al massacro, ora, è stato intrappolato anche Sergio Moro, giudice simbolo di Lava Jato. Una brutta notizia per una democrazia già in crisi. Il sospetto - ancora da provare ma più insinuante dopo le ultime rivelazioni - che il «magistrato eroe » abbia agito per sabotare la candidatura di Lula, dato al 40 per cento nei sondaggi, non aiuta i cittadini a riacquisire fiducia nel Paese. E, senza quest’ultima, è difficile che il Brasile esca dal tunnel della crisi, non solo economica, che lo attanaglia.