Botta e risposta. «Nel mondo l'arte si paga». Ma la tendenza è a renderla gratuita
Gentile Direttore,
non corrisponde al vero quanto sostenuto nell’articolo a firma di Alessandro Beltrami “Il diritto all’immagine nell’arte e i rischi di una censura culturale”, pubblicato il 23 maggio scorso sul quotidiano “Avvenire”. Non è affatto vero che «l’Italia va in controtendenza rispetto a quanto accade nel mondo». Alla politica dell’open access del Rijksmuseum di Amsterdam (23° museo al mondo, nel 2022, per visitatori), si contrappongono strategie commerciali di importanti istituzioni museali straniere, fondate anche sulla vendita delle immagini e dei diritti di riproduzione. Per un’immagine in alta risoluzione del Carnegie Museum of art di Pittsburgh, in Pennsylvania, ad esempio, si pagano 100 dollari, mentre se ne pagano la metà (e non sono gratuite) se le immagini sono richieste per un uso non profit. Al British Museum di Londra (3° nella classifica mondiale dei musei più visitati nel 2022), invece, per avere un file digitale in alta risoluzione l’importo varia dalle 45 alle 60 sterline, mentre alla Tate Gallery (che nella classifica si trova al 5° posto), per stampare l’immagine di un’opera di John Bettes, per uso accademico, e in una tiratura di 500 copie, in una sola lingua, si pagano 45 sterline che diventano 169 se la pubblicazione è digitale, ha un uso editoriale (e non accademico), ed è diffusa in diverse lingue ad ogni latitudine. Anche il tariffario dei Musei vaticani non aderisce alla politica del cosiddetto open access a torto ritenuta, nell’articolo, prevalente su scala globale: per una stampa su carta fotografica il prezzo varia da 27 a 126 euro, mentre per un file digitale in alta risoluzione per studio e pubblicazione il prezzo è di 25 euro, importo che raddoppia, arrivando a 50 euro, quando l’uso è di tipo editoriale e/o audiovisivo. Sempre nello stesso tariffario vaticano è previsto il pagamento di 315 euro se si intende pubblicare un’immagine in copertina, in un solo territorio, mentre se si vuole estendere la pubblicazione su più territori, il prezzo cresce fino a 500 euro. Per contro, con una mostra immersiva che ha sfruttato le immagini dei Musei vaticani, presso il museo di Boston, negli Usa, il biglietto poteva costare fino a 79,99 dollari. Va ricordato, poi, che l’obbligo di fissare «gli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per l’uso e la riproduzione dei beni culturali» (art. 108, comma 6, Codice dei beni culturali e del paesaggio) grava su ogni “amministrazione concedente” e, dunque, non solo sul Ministero della cultura. Tanto è vero che esiste un tariffario elaborato anche dal Ministero dell’interno nel 2014: per riprese fotografiche non eseguite dall’amministrazione viene richiesto un corrispettivo di 80 euro. Quanto al caso citato nell’articolo della Fondazione Museo egizio di Torino, forse è sfuggito all’autore che la Fondazione è un ente di diritto privato, per quanto partecipato da soggetti pubblici, e dunque ad essa non si applica l’articolo 108 Codice. Il punto, quindi, non è lo sghiribizzo dell’Amministrazione (far pagare o meno), ma il discrimine posto nel Codice (e risalente ai precedenti governi) tra uso a scopo lucrativo (soggetto al pagamento) e uso personale o di studio (gratuito). Questo impianto non è stato minimamente scalfito nel tariffario ministeriale dello scorso aprile. Infine, vale la pena di ricordare che il d.lgs. 200/2021 (attuativo della direttiva europea 1024/2019) ha escluso espressamente le biblioteche, comprese le biblioteche universitarie, i musei e gli archivi dall’obbligo di rendere gratuitamente i propri dati. Quindi, ancora una volta, una scelta normativa di precedenti Governi, che vincola le attuali Amministrazioni. Per cambiare le cose, occorrerebbe cambiare la legge e non un atto amministrativo.
Gentile dottor Tarasco, il direttore mi incarica di rispondere alle sue osservazioni, in quanto autore dell’articolo da lei preso in considerazione, e la ringrazio innanzitutto per l’attenzione prestata al nostro lavoro. Nel merito, mi sento tuttavia di ribadire che quanto scritto corrisponde al vero. Vede, al suo elenco potrei ribattere che negli Usa il Met di New York, i 21 musei dello Smithsonian e la National Gallery di Washington, l’Art Institut di Chicago e persino il privatissimo Getty (che in tutta onestà non mi paiono paragonabili al Carnegie Museum of Art di Pittsburgh) hanno adottato politiche di open access. Come in Europa i Musei di Stato di Berlino e i musei della città di Parigi... Ma resterebbe solo una porzione di una lista in espansione. Per dimostrare che esista un trend internazionale (e non una prevalenza globale, della quale nel mio articolo non parlo) basta evidenziare da una parte che fino a pochi anni fa per tutti questi musei le immagini delle opere di pubblico dominio erano disponibili a pagamento e dall’altra che l’Unione Europea va apertamente in tale direzione proprio a partire da quella direttiva sulla privacy che, come lei ha ricordato, nel decreto attuativo la legislazione italiana ha sostanzialmente ignorato. In termini di gratuità l’Italia viaggia al contrario rispetto anche a se stessa, visto che nel “Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale” e più nello specifico nelle “Linee guida per l’acquisizione, la circolazione e il riuso delle riproduzioni dei beni culturali in ambiente digitale” (giugno 2022) si prevede(va) «in linea generale, la gratuità per qualsiasi tipo di pubblicazione editoriale in forma di monografia, rivista o periodico sia in formato cartaceo sia digitale, da chiunque proveniente e per qualsiasi supporto». Il fatto che la sua lettera non solo non smentisca ma confermi la ricaduta dei costi sulla ricerca e che anzi parli di «strategie commerciali», mi sembra ulteriore dimostrazione di quanto ho scritto. Certo, per cambiare le cose, occorrerebbe cambiare la legge e non un atto amministrativo. Visti però gli atti amministrativi, non mi pare che questo rientri nelle intenzioni.