Né Donnie né Daspo. Buoni processi la vera rivoluzione
La gran cassa con la quale il governo, in particolare il vicepremier Luigi Di Maio, ha annunciato fin dai giorni scorsi il disegno di legge anticorruzione varato ieri sera dal Consiglio dei ministri potrebbe indurre a pensare che finora il nostro ordinamento fosse privo di norme, penali e non, mirate a prevenire, reprimere e sanzionare questa autentica piaga sociale ed economica. Ecco, va osservato preliminarmente che così non è. Anzi, dal 2012 è in vigore in Italia una legge – la numero 190, conosciuta come "Severino", dal cognome del ministro della Giustizia proponente – piuttosto nota per le ripercussioni che ha avuto sulla carriera politica di Silvio Berlusconi.
Questa normativa, oltre a dare più forza all’Autorità garante anticorruzione che vigila in funzione preventiva su appalti e contratti della pubblica amministrazione, prevede una serie di punizioni per i colpevoli di corruzione e concussione (inclusa l’incandidabilità, anche retroattiva, per gli eletti alle Camere, al Parlamento Europeo e agli enti locali che siano stati condannati in via definitiva), introduce la fattispecie di reato dell’«induzione indebita a dare o promettere utilità», inasprisce le pene. Altri importanti interventi normativi sono seguiti nel 2015.
Tutto ciò per dire che non sono le leggi che mancano in Italia, né tanto meno le inchieste e i processi per corruzione. Anche prima della Legge Severino, come insegna Tangentopoli. Mancano semmai all’appello numerose sentenze, perché i processi (non soltanto quelli per i reati contro la pubblica amministrazione) finiscono ogni anno a migliaia nel macero inesorabile della prescrizione.
Della prescrizione non si occupa tuttavia il ddl varato ieri a Palazzo Chigi (il governo lo farà «entro l’anno», ha assicurato il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede), ma prova a intervenire più che altro sul fronte della repressione, se non anche, e addirittura, su quello della "provocazione". Con quest’ultimo termine ci riferiamo chiaramente alla figura dell’agente sotto copertura, che Di Maio ha presentato sui social come «un moderno Donnie Brasco», nome fittizio di Joseph Dominick Pistone, l’agente del Fbi che sgominò dall’interno la famiglia mafiosa dei Bonanno.
Una storia vera, che forse il ministro avrà conosciuto, come tanti, guardando il bel film di Mike Newell con Johnny Depp e Al Pacino. Ma siamo proprio sicuri che fingersi mafioso tra i mafiosi (a proposito, alcuni poliziotti e carabinieri coraggiosi lo fanno anche qui, in Italia) sia la stessa cosa che infiltrarsi in un ufficio pubblico per stanare il corrotto e il corruttore di turno? Poniamo che il Donnie Brasco di casa nostra capiti in un ente dove tutti si rivelano integerrimi. Che fa? Trascorre tutta la carriera travestito da impiegato? Aspetta un po’ e poi finge di dimettersi? Oppure, ecco il punto, cerca in qualche modo di mettere alla prova l’onestà di funzionari e imprenditori alla ricerca di appalti? Il confine tra infiltrazione e provocazione è labile, oltrepassarlo potrebbe essere facile.
Ma non auspicabile: uno Stato che punisse reati da esso stesso provocati, infatti, sarebbe ancora uno Stato di diritto?
Analoghe considerazioni valgono per il cosiddetto «daspo ai corrotti». Entusiasta Di Maio: «Saranno marchiati a vita», aveva esultato sul web. Tradendo, anche in questo caso, una concezione della giustizia che assomiglia molto alla vendetta. Ma alla fine hanno prevalso i consigli giuridici del premier-avvocato Giuseppe Conte (al quale non sono sfuggiti i rischi d’incostituzionalità di una simile norma, qualora non avesse tenuto conto della riabilitazione del condannato) e le perplessità politiche della Lega.
Perciò, per condanne superiori a due anni, il 'daspo', anche se presentato come «perpetuo» perfino nella conferenza stampa di ieri a Palazzo Chigi, non sarà a vita, ma comunque a tempo. Seppure un lungo tempo. Resta da vedere se e come funzioneranno altre disposizioni contenute nel provvedimento, come la non punibilità del corrotto/corruttore che si autodenuncia e l’abolizione della possibilità di fare donazioni anonime ai partiti politici.
Parlare di «SpazzaCorrotti», come ha fatto il governo, sembra tuttavia fin d’ora un eccesso di ottimismo. O di propaganda. Per stupire davvero, l’esecutivo dovrebbe piuttosto riuscire laddove hanno fallito tutti i precedenti governi, da una trentina d’anni almeno: accelerare i processi in modo che arrivino a sentenza definitiva, senza ovviamente comprimere il diritto alla difesa. Ci provi: il tempo c’è, i numeri in Parlamento pure. Questa sì, sarebbe una rivoluzione.