Opinioni

Reportage. Marocco, gli «uomini liberi» e la protesta dimenticata

Gilberto Mastromatteo sabato 11 novembre 2017

Una manifestazione di imazighen, il popolo berbero, nella città marocchina di Al Hoceima

«Protestiamo da oltre un anno contro il governo marocchino. Ma sembra che al mondo non interessi». Reduan Mohamed mostra le tre dita alzate della mano destra. Terra, uomo e idioma. Il triplice segno che contraddistingue gli imazighen. I berberi, come siamo abituati a chiamarli, da questa parte del mare. Gli 'uomini liberi', come amano definirsi loro. Il popolo indigeno del nord Africa, oggi quasi totalmente arabizzato e disperso in isole linguistiche che punteggiano l’intero Maghreb, tra l’Egitto e il Marocco.

Reduan è nato a Ceuta, in territorio spagnolo. Ma la sua famiglia proviene da un villaggio vicino Al Hoceima. La capitale dei berberi del Marocco, concentrati tra i monti e le vallate del Rif, una delle regioni più depresse del Paese. Qui, da più di dodici mesi, donne e uomini sono in rivolta permanente. «Ci sono stati almeno due morti – racconta Reduan – centinaia di arresti e decine di persone scomparse». La via crucis di un tumulto chiamato Hirak. Letteralmente il 'movimento', in lingua tamazigh.

Una enorme sollevazione iniziata il 28 ottobre del 2016, con l’orrenda morte di un pescivendolo di 31 anni, che si chiamava Mouhcine Fikri. «Alcuni agenti gli avevano confiscato un carico di pesce spada – spiega Reda Benzaza, uno dei portavoce del movimento Hirak – per recuperarlo, Mouhcine si è gettato disperatamente all’interno di un camion della nettezza urbana. La macchina è partita inavvertitamente. E lui è morto triturato».

Reda non ha ancora 30 anni e parla un perfetto spagnolo. Ad Al Hoceima faceva l’insegnate di lingua castigliana, prima di essere costretto a fuggire. Oggi vive a Malaga, dove coordina le attività del movimento in diaspora. A casa non può tornare. Su di lui pende un mandato di cattura. «Dopo la morte di Mouhcine – continua – la gente ha subito reagito, cominciando a scendere in strada, per protestare contro il governo marocchino. Da allora, non ha più smesso». Una storia, quella di Fikri, che da più parti è stata paragonata alla vicenda di Mohamed Bouazizi. Il venditore ambulante tunisino che, alla fine del 2010, si diede fuoco a Sidi Bouzid, dopo l’ennesima angheria del regime di Ben Ali. La prima scintilla della cosiddetta 'primavera araba'.

Un incendio che, di lì a pochi mesi, avrebbe investito l’intero nord Africa. Compreso il Marocco, dove sorse il movimento '20 febbraio'. Proprio Al Hoceima ne fu l’epicentro. Cinque i manifestanti uccisi, tra il 2011 e il 2012. Ma Reda non ama l’accostamento.

«Noi non siamo arabi, siamo berberi arabizzati. E la nostra non è una primavera araba. È una tempesta amazigh » sentenzia, giocando sul nome del leader carismatico del movimento, Nasser Zefzafi, che in tamazigh significa, appunto, 'tempesta'. «Nasser è un disoccupato – dice Reda – ma è riuscito ad incarnare la volontà di un intero popolo. Il suo carisma ha dato coraggio alla gente. Il suo messaggio parla di solidarietà, patriottismo, attaccamento a questa terra».

Al Hoceima è un dedalo di palazzi bianchi affacciati sul mare. La presenza della gendarmeria marocchina è massiccia, evidente e asfissiante. Qui la disoccupazione tocca i livelli più alti. Non c’è un ospedale di livello, non c’è l’università, non c’è la ferrovia. La stazione più vicina è quella di Nador, circa 120 chilometri a est. «I tassi di cancro sono i più alti del Paese – dice ancora Reda – scontiamo i bombardamenti con armi chimiche e iprite, che vennero compiuti qui dagli spagnoli, durante la guerra del Rif. E non c’è un centro oncologico per diagnosticare e curare le neoplasie. È su questa insoddisfazione che è attecchito il movimento. Disoccupati, casalinghe, lavoratori oppressi da un regime pervasivo. Alla fine hanno rotto gli indugi e sono scesi in strada».

Tra l’autunno e l’inverno dello scorso anno le manifestazioni di protesta divampano quasi quotidianamente, coinvolgendo decine di migliaia di persone. Le rivendicazioni sono di carattere sociale: lavoro, infrastrutture e sviluppo, in un’area da sempre ai margini. Tuttavia, sullo sfondo, resta lo spirito autonomista degli imazighen del Rif. L’apice della protesta lo si raggiunge il 18 maggio. «Per le strade c’erano decine di migliaia di persone – ricorda Reda – non solo ad Al Hoceima, ma anche ad Imzouren, ad Ait Bouayach e nel resto della regione. Sventolavano il tricolore berbero o la bandiera rossa della Repubblica del Rif, quella creata nel 1921 da Mohamed Abd el Krim, il condottiero degli amazigh. Probabilmente è stata la più grande concentrazione mai andata in scena nel Rif». Da quel momento il Makhzen – come viene definita la monarchia alawita in Marocco – corre ai ripari. Una delegazione governativa viene inviata ad Al Hoceima, dal monarca Mohamed VI. Si tenta di negoziare una tregua con i manifestanti. Si parla di infrastrutture e lavoro, di rilanciare il progetto di sviluppo 'Al Hoceima, faro del Mediterraneo'. Ma senza esito. Le manifestazioni si susseguono e raggiungono Rabat e Casablanca. La reazione governativa si fa dura. Tra la primavera e l’estate, finiscono in carcere centinaia di persone.

«Circa trecento stando alle stime ufficiali – dice Reda – ma la realtà è che sono molti di più. Contiamo decine di attivisti scomparsi in tutto il Rif. Ci sono padri e madri che cercano i loro figli, senza avere risposte. E nelle carceri sono documentati casi di tortura'. A fine maggio viene arrestato Nasser Zefzafi, dopo aver interrotto la preghiera del venerdì, nella gran moschea della città. Da allora è detenuto nel carcere di Oukacha, a Casablanca, in regime di isolamento. Poche settimane dopo è la volta della giovane cantante Silya Ziani, divenuta la voce del movimento Hirak, con le sue canzoni ispirate alla protesta. Verrà poi graziata da Mohamed VI e rilasciata assieme ad altri 40 attivisti. Ma racconterà di essere stata molestata in detenzione. Il 20 luglio va in scena una nuova oceanica protesta. È l’anniversario della storica battaglia di Anwal, dove i berberi di Abd el Krim sconfissero i colonizzatori spagnoli.

«Doveva essere la 'marcia del milione' – testimonia Reduan, che era tra i manifestanti – la città era militarizzata. Ma i cortei sono partiti lo stesso. La repressione delle forze dell’ordine è stata brutale. Ricordo il momento in cui un ragazzo veniva colpito da un lacrimogeno al volto. Si chiamava Imad El Attabi, aveva 16 anni. È morto dopo pochi giorni».

Il resto è storia recente. Il processo a Zefzafi e agli altri detenuti del movimento prosegue a Casablanca. Rischiano pene tra i 20 anni e il carcere a vita. Un appello per la loro liberazione porta le firme del linguista statunitense Noam Chomsky, del regista britannico Ken Loach e della scrittrice indiana Arundhati Roy. Nelle scorse settimane c’è stato un nuovo tentativo diplomatico da parte del sovrano, che ha rimosso tre ministri e 15 alti funzionari, per via della situazione del Rif. Ma le proteste non si placano. Anzi, mutano strategie e modi.

«Le nuove concentrazioni le definiamo shan tan – spiega Kamal Thawist, attivista del movimento Hirak, riparato a Barcellona – sono manifestazioni più rapide, organizzate con un banale telefono cellulare, attraverso i social network. E poi disperse nel giro di pochi minuti. Giusto il tempo di registrare una diretta video da affidare alla rete. Un modo per evitare il pugno di ferro messo in atto dalle forze dell’ordine e il blackout voluto dal governo». Al Hoceima è una città totalmente militarizzata. I giornalisti stranieri che tentano di documentare le proteste sono puntualmente pedinati dall’intelligence marocchina, minacciati e persino espulsi dal Paese. L’ultimo a fine settembre, Saeed Kamali Dehghan, un corrispondente del quotidiano britannico Guardian. «Cercano di ridurci al silenzio e all’oblio – dice Kamal – non abbiamo altra scelta che proseguire. Prima o dopo, il mondo si accorgerà di noi».