Opinioni

Il magistero. L'ultima cattedra del silenzio del Papa e teologo della parola

Mimmo Muolo martedì 3 gennaio 2023

Quasi otto anni sulla Cattedra di Pietro. E quasi dieci da Papa emerito. Il tempo della parola, si potrebbe dire, e quello del silenzio. Perché, citando il Qoelet, nella vita c’è un tempo per tutto, anche per tacere e per parlare. E Benedetto XVI lo sapeva benissimo. Ma dopo la sua morte, salta agli occhi questa apparente dicotomia delle due parti finali della sua vita terrena. Il pontefice teologo, autore, prima e dopo il 2005, di libri mirabili e altrettanto importanti discorsi, aveva nella capacità di maneggiare le parole a commento della Parola uno dei suoi talenti indiscussi.

Interventi che lasciavano sempre il segno. Basti ricordare, prima dell’elezione, il suo “Introduzione al cristianesimo”, long seller che ha formato generazioni di fedeli e di teologi, il discorso della Messa pro eligendo Pontifice, prima del Conclave dal quale sarebbe uscito vestito di bianco, o il dialogo costante con la cultura contemporanea per tornare a pensare etsi Deus daretur, dopo due secoli di ricercata separazione tra fede e ragione. Oppure basta riandare ai suoi grandi discorsi papali. Da Regensburg a Westminster, dall’Onu al Bundestag, dal College des Bernardins a Parigi, fino a quello che gli fu impedito di tenere all’università La Sapienza. Senza dimenticare le omelie del Corpus Domini, in cui l’amore per Gesù eucaristia si esprimeva con efficacia e semplicità insieme. «Vola alta, parola, cresci in profondità, / tocca nadir e zenith della tua significazione », verrebbe da commentare, citando Mario Luzi. Le parole di Joseph-Ratzinger Benedetto XVI non di rado hanno toccato quei vertici di “significazione”.

E costituiscono un corpus teologico e magisteriale di immenso valore. Fede, speranza e carità – non caso il trittico delle sue encicliche sulle virtù teologali (l’ultima delle quali, la Lumen fidei, recepita e fatta propria da papa Francesco) – declinate per l’uomo contemporaneo, riaffermate come roccia salvifica, per «non lasciarsi portare qua e là da qualsiasi vento di dottrina», offerte come compagne di viaggio non in contrapposizione alla scienza dell’uomo, ma anzi come disvelatrici di senso di ogni attività umana. Come leggiamo nel suo testamento spirituale, «ho visto e vedo come dal groviglio delle ipotesi sia emersa ed emerga nuovamente la ragionevolezza della fede. Gesù Cristo è veramente la via, la verità e la vita; e la Chiesa, con tutte le sue insufficienze, è veramente il Suo corpo».

Si può immaginare, dunque, quale suprema rinuncia abbia dovuto compiere l’uomo, il credente, il Papa una volta divenuto emerito, nel deporre volontariamente, oltre che il munus petrino, anche l’esercizio di quella sua meravigliosa capacità. Quasi un “martirio della pazienza” il suo farsi muto, con rare eccezioni, per il bene della Chiesa, dopo aver constatato che le forze non gli erano più sufficienti per il governo. Ma ecco il lato sorprendente dell’ultima parte della sua vicenda terrena, che ricompone l’apparente dicotomia di cui si diceva.

Quel silenzio, in realtà, si è fatto esso stesso parola. E ha parlato al cuore del mondo, testimoniando rispetto, obbedienza e reverenza (come egli stesso aveva promesso) al suo successore, preghiera per tutti, gentilezza, rifiuto netto di ogni tentativo di strumentalizzazione anti-Francesco («il Papa è uno solo»), umiltà e grande amore a Cristo, alla Chiesa, agli uomini e alle donne di questo tempo. Anche a chi ha cercato di infangarne l’immagine con false accuse. Per san Giovanni Paolo II, nell’ultimo periodo segnato dalla malattia, si parlò di “cattedra del dolore”. Per Benedetto XVI si potrebbe parlare di “cattedra del silenzio”. In fondo valgono anche per lui i versi di Alda Merini, riferiti a Maria e citati da papa Bergoglio a Capodanno. «Sapeva essere anche solennemente muta, perché non voleva perdere di vista il suo Dio». Non l’ha certamente perso di vista, papa Ratzinger.

Fino alla fine, com’è certificato dalle sue ultime parole: «Signore, ti amo». Per tutti noi, invece, questi quasi dieci anni di diverso “magistero” sono serviti da vasca di decantazione dei venti contrari e delle vere e proprie tempeste che il suo Pontificato ha dovuto affrontare. Per comprenderne meglio la grandezza, la fecondità e l’eredità che ci ha lasciato. Sia con le parole, sia con la preghiera nel silenzio.