Reportage. «L'incontro coi profughi a Lesbo ci ha cambiati come cristiani»
Padre Martin distribuisce la comunione (
«Quando distribuisco loro la comunione e li guardo, nei loro occhi colgo molte cose: un senso di impotenza e confusione, ma anche tanta speranza e fiducia», dice padre Martin, come è chiamato qui a Lesbo l’ex parroco Martin Schneeberger, 63 anni, olandese, già assistente spirituale all’ospedale di Amsterdam. Ha le lacrime agli occhi mentre parla: «La loro fede rafforza la mia – dice –. Sono molto grato al Signore di poter assolvere questa missione».
La piccola chiesa cattolica, costruita nel 1843 dai francescani francesi, è difficile da scovare, nascosta dietro negozi e appartamenti nella capitale Mitilene, sull’isola greca. I parrocchiani sono circa un centinaio, ma solo una dozzina sono attivi nella comunità. Il pastore greco, padre Leon, vive su un’altra isola e qui riesce a venire solo qualche volta in barca, durante la settimana, per celebrare la Messa. Martin Schneeberger è qui da molti anni, conosce bene l’isola, e lo scorso gennaio ha deciso di stabilirvisi a tempo indeterminato. Si è recato ogni giorno al campo di Moria, che all’inizio di quest’anno ospitava 22.000 richiedenti asilo. Ascoltava le loro storie e il racconto delle miserabili condizioni in cui erano costretti a vivere. Lo ha fatto fino a quando il campo non è bruciato di recente. «Non hai idea delle cose che devo benedire ogni domenica dopo la Messa: acqua, olio, sale, rosari. Quando chiedo loro perché devo benedire l’olio, mi dicono: 'L’olio benedetto dà più pace'».
Il campo di Moria incendiato - H. Munsterman
La vita dell’insegnante di inglese Len Meachim, che ha sposato una donna greca di fede ortodossa e da anni vive sull’isola, è cambiata radicalmente nel 2015. «Nel tempo libero mi piaceva andare a fare jogging, pescare, nuotare. Poi ho visto come questi rifugiati sono arrivati dal mare, uscendo dall’acqua camminando. Da quel momento non sono più riuscito a vivere facendo le cose di prima». Insieme ad altri parrocchiani Len si è recato sulla spiaggia per mesi, giorno dopo giorno, per accogliere i rifugiati, prima che nel sud dell’isola arrivassero le Ong. «Ricordo come mi sono sentito a disagio la prima volta che ho offerto un bicchiere d’acqua a un bambino, fino a che non ho visto la reazione dei suoi genitori», dice. Non si tratta solo di offrire cibo, acqua e vestiti: «Stavamo lì in piedi, sulla spiaggia, ad aspettarli, perché fa una grande differenza trovare qualcuno che ti dà il benvenuto». Le persone più vulnerabili venivano portate nel campo dai parrocchiani, con le loro auto, anche se era ufficialmente proibito. Fin dall’inizio la parrocchia ha collaborato attivamente con Siniparxi, un’associazione di volontari dell’isola che aiuta anche i rifugiati. Len ha iniziato presto a insegnare inglese, una donna della parrocchia insegnava il greco. «Poi sono arrivate le prime Ong nella zona sud di Lesbo. A quel punto non c’era più bisogno di noi. Anche perché ci vedevano co- me dilettanti e a volte avevamo la sensazione di non essere i benvenuti».
La piccola comunità ha iniziato ad aprire la sua chiesa ai rifugiati già nel 2015, per permettere loro di venire a pregare o anche solo accendere una candela. Anche alcuni musulmani venivano qui regolarmente, «per essere vicini a Dio», come dicevano. «Per i richiedenti asilo la chiesa rappresentava un luogo dove trovare normalità, pace, sicurezza. Ma sempre più spesso hanno anche iniziato a chiedere una funzione religiosa». Il vescovo risiede su un’altra isola: monsignor Nikolaos Printesis è arcivescovo di Naxos, Andros, Tinos e Mykonos, ma è anche ammini-stratore apostolico di Lesbo, che fa parte della diocesi di Chio, e sostiene attivamente la piccola parrocchia. Ha nominato Len come suddiacono, funzione ufficialmente abolita nel 1972, ma che ora concede a Len una certa visibilità nel contesto greco, dove gli operatori pastorali non esistono. È attivo nei servizi di preghiera e può distribuire la comunione. «Abbiamo bisogno di Bibbie, soprattutto in francese, e di rosari – spiega Len –. Alcuni rifugiati sono qui da anni, soprattutto uomini soli. Altri se ne vanno in fretta, in particolare le donne che ottengono l’asilo più velocemente». Dopo la Messa, con discrezione, ogni tanto mette una moneta da due euro nelle mani di chi incrocia.
Il suddiacono Len Meachim con due richiedenti asilo - M. Benguigui
Questa domenica alle undici c’è la Messa franco-inglese. A causa delle misure per il coronavirus solo venti persone possono entrare in chiesa. Altri si siedono all’aperto nel cortile, sotto il sole cocen- te, dove c’è posto per dieci persone in più. Prima della pandemia, i profughi che partecipavano alla funzione religiosa erano più di un centinaio. Alcuni degli attuali richiedenti asilo vivono in città, ma altri hanno dovuto camminare dieci chilometri per venire fin qui dal nuovo campo. «Fino allo scorso anno c’era un collegamento con l’autobus e offrivamo noi i biglietti – racconta Len –. Quando i trasporti si sono fermati a causa del coronavirus abbiamo noleggiato un autobus per andare a prendere i rifugiati. Poi ha chiuso anche la chiesa. Successivamente, con la riapertura, sono stati ammessi solo gruppi di dieci visitatori. Così abbiamo organizzato diverse funzioni religiose e loro hanno incominciato ad arrivare in gruppi di dieci». E ora di venti.
Alcuni rifugiati sono qui da due anni, racconta Len: «Quando arrivano sono già traumatizzati, e qui subiscono altri traumi». Eppure molte di queste persone hanno talenti che all’Europa potrebbero essere utili. Incontro infermieri, esperti di informatica e di information technology... «Ma tanti di loro finiscono per essere amareggiati», dice cercando di reprimere la sua stessa amarezza. «La realtà è che questa esperienza ci ha cambiati, siamo diventati credenti in modo diverso». Len rimane in silenzio per un attimo. Poi deglutisce. «È difficile per me parlarne. Tutti questi incontri mi hanno dato molto più di quello che ho potuto dare io. Ciò che facciamo è normale, solo che lo stiamo facendo in una situazione che normale non è. Mi colpisce il fatto che queste persone, dopo tutto quello che hanno vissuto nel loro Paese, e durante il viaggio, ora si trovano ad affrontare a Moria una situazione disumana. Ma vengono in chiesa e cantano con tanta speranza e tanta gioia! Prima del coronavirus si era formato un coro africano: l’entusiasmo di quel canto arrivava direttamente al cuore, mi commuovevo ogni volta che li ascoltavo cantare ». E di nuovo gli occhi di Len si riempiono di lacrime.
Durante la Messa i rifugiati cantano: «Come potrei non lodarti, Signore?». Padre Martin li benedice con l’incenso, poi si incammina verso l’uscita per fare lo stesso sulla soglia della chiesa rivolto alle persone che si trovano nella piazza. «Non servono molte parole in una situazione come questa», dice, terminata la funzione.
(questo reportage è stato pubblicato sul Nederlands Dagblad il 23 settembre)