Riflessioni a partire dalla morte di Bertolucci. L'eclissi del pudore e la sua pienezza
La morte del regista Bernardo Bertolucci ha riattivato in Italia un dibattito da qualche tempo latente, quello sul significato e sul senso del pudore: trattandosi di un regista che, proprio a questo riguardo, ha dato luogo ad una vivace querelle proprio su questo punto e sul rapporto fra pudore e società. E tutto ciò con interventi che hanno ora decretato la morte del pudore, ora riaffermato il suo significato profondo, pur nella mutevolezza dei costumi. Chi scrive aveva a lungo trattato il tema in una 'voce' del 'Dizionario di teologia morale', apparso in anni ormai lontani: rileggendo, per altro, quelle pagine, ha dovuto constatare come, proprio a proposito del 'senso del pudore', il problema costantemente si ripropone e le risposte sono, in larga misura, quelle di sempre. Perché, dunque, tornare sugli stessi, eterni, problemi?
La questione che seriamente si pone è quella che fa riferimento a una lettura 'ampia' o non, invece, 'ristretta' del concetto stesso di pudore. Si tende oggi, in effetti, a 'restringerlo' alla sola sfera della sessualità, dimenticando il significato assai più vasto di questa categoria di pensiero. Il pudore come tale riguarda tutta la sfera dei sentimenti: ogni persona ha una sua propria di intimità nella quale nessuno può entrare (a meno che lo si voglia, come avviene nelle più intime amicizie e nel rapporto di amore sponsale). Ridurre questa 'intimità' alle dimensioni di un vestito o al compimento di un atto è un profondo travisamento del senso del pudore: da questo punto di visita, la recente società del selfie, delle sfacciate autobiografie, delle fotografie che si gettano alla scoperta delle nudità esprime varie forme di travisamento del pudore.
Il mondo dell’immagine cinematografica, televisiva soprattutto, ma anche pubblicitaria, vorrebbe sottrarsi a questa sorta di 'regola d’oro', e cioè il primato dell’interiorità, ma incontra il limite invalicabile rappresentato dal 'mezzo' con il quale si deve inevitabilmente misurare, e cioè la macchina da presa e fotografica: essa non può che sfiorare soltanto l’intimità: pretenderebbe di vedere tutta intera la persona e non ne vede che una parte, e per di più da un punto di vista del tutto esteriore. Ecco qui, appunto, il problema: si tende, quasi inevitabilmente, a scambiare l’esteriorità con l’interiorità, a considerare 'reale' soltanto ciò che si vede e si tocca. Un caso tipico di questo radicale fraintendimento è – nel cinema, in tv e nella pubblicità forse ancor più che nella poesia, nella letteratura e nell’arte, che conoscono ben altre finezze – lo scambiare il corpo per la persona: mentre la persona è al di là del corpo, anche se la sua decifrazione passa necessariamente attraverso il corpo. Ridurre la persona al corpo è, propriamente l’osceno.
Ed è interessante notare che ciò avevano in qualche modo intuito gli antichi quando, inventando la categoria di obscenum, volevano indicare qualche cosa che sta, o dovrebbe stare, letteralmente 'fuori della scena'. Il corpo svelato in tutta la sua nudità, e talvolta nelle sue aberrazioni, appunto l’'osceno', sta dentro. La persona invece, sta fuori e non la si può guardare. Il cinema, più ancora della televisione e della pubblicità, con l’attuale e ricorrente ossessione dei corpi e dei gesti corporei, pretenderebbe di occupare tutta la scena: ma in realtà la scena e, propriamente, la vita 'sta fuori', è ciò che non può essere mai completamente esplorato e tanto meno proposto come totalmente umano. Forse, alla fine, l’osceno è soltanto una forma di protesta e di nostalgia: non essendo capaci di cogliere la totalità della persona – quale soprattutto si rivela nel rapporto di amore – ci si accontenta di presentarlo, in tutte le forme, nella sua parzialità. Proprio questo silenzio sulla persona, questo tentativo di ridurre la persona a epidermide è il limite, e la condanna, della pornografia. Anche quando si pretenda di presentarla come 'arte'.