Valori cristiani e rischio fondamentalista. Le (tre) distinzioni che Orbàn ha perduto
Il premier Orban a un comizio a Zekesfehervar, il 6 aprile scorso (Ansa)
Caro direttore,
a suggello della sua autodifesa davanti al Parlamento europeo che discuteva una procedura sanzionatoria nei suoi confronti per sospetta violazione dei princìpi liberali che reggono lo Stato di diritto, il premier ungherese Viktor Orbán ha asserito che la sua stella polare sarebbero i «valori cristiani».
Merita ragionarci su.
Anche perché Orbán sembra capeggi un fronte sovranista che si va dilatando, che divide l’Europa e la stessa famiglia politica dei Popolari europei cui egli tuttora appartiene. Molte obiezioni si possono muovere alla pretesa di interpretare al meglio i valori cristiani. Obiezioni storicopolitiche nel solco della memoria dei padri nobili dell’Europa unita espressione della tradizione democratico-cristiana. E obiezioni teologiche, che richiamino l’indole universalistica e solidaristica del cristianesimo. Altri, con efficacia, hanno già argomentato in tal senso.
Per parte mia, vorrei limitarmi a un appunto di tipo concettuale a monte delle dispute politico-teologiche. L’esercizio della ragione presuppone l’arte di distinguere. Ecco allora tre distinzioni che possono essere opposte ai cortocircuiti di Orbán: valori cristiani = identità nazionale = no all’immigrazione.
Nell’ordine. Che il cristianesimo abbia concorso in misura decisiva a forgiare la civiltà europea e le sue nazioni è cosa certa. Ma vi hanno concorso anche altri elementi – la cultura greca e romana, la tradizione ebraica, l’illuminismo – e comunque, per sua natura, il cristianesimo è lievito e fermento che trascende le nazioni e le forme della civilizzazione, che non coincide con alcuna di esse. Secondo: storicamente le migrazioni come tali non sono una minaccia né alle nazioni né al cristianesimo.
In alcuni casi – vedi il caso delle Americhe – semmai il contrario: i migranti cristiani europei hanno posto un segno indelebile nella formazione delle nazioni. Talvolta persino negativamente, in forma di dominazione coloniale. Anticipo l’obiezione circa l’asserita insidia della islamizzazione dell’Europa sull’onda delle migrazioni dal nord Africa.
Ma domando: davvero pensiamo che la tenuta di ciò che residua di un ethos cristiano in Europa sia minacciata dagli islamici più di quanto non sia stata già erosa dal secolarismo nordoccidentale? Terza distinzione: quella tra nazione e Stato. Uno è concetto che ha a che fare con la storia e la cultura, l’altro con la moderna creazione istituzionale. Appiattire l’uno sull’altro significa porre le premesse per conflitti insanabili, inibire Stati multietnici e multinazionali. Nei quali convivono comunità composte da etnie, culture, lingue diverse.
Gli esempi si sprecano. Ignorare o, peggio, rinnegare tali essenziali distinzioni è semmai un torto inferto proprio al cristianesimo, al suo travagliato ma fecondo percorso storico, al decisivo contributo da esso fornito alla evoluzione della civiltà europea e occidentale nella quale ci riconosciamo: con la sua sensibilità per le “libertà dei moderni”, lo Stato di diritto, la laicità delle istituzioni. Revocare il guadagno condensato in quelle distinzioni sarebbe esso sì un cedimento alla medesima logica illiberale e regressiva che informa il fondamentalismo islamico.