Afghanistan. A Doha il summit Onu-taleban, ma senza donne. Realpolitik o tradimento?
Lunedì scorso, 24 giugno, si celebravano le donne in diplomazia, nell’ennesima Giornata internazionale, e Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, ha scritto su X (l’ex Twitter): «In questo giorno così importante, la famiglia dell’Onu saluta le infaticabili donne che nel mondo stanno costruendo fondamenta robuste alla pace». Le saluta, appunto. E da lontano.
Perché domenica 30 giugno e lunedì 1 luglio le “infaticabili donne” di pace staranno a casa. Escluse dal vertice di Doha, il terzo round negoziale sull’Afghanistan, il primo in cui i padroni del Paese asiatico hanno accettato di essere presenti. Il dialogo con i taleban non si è mai interrotto nei quasi 3 anni trascorsi dalla presa del potere da parte degli efferati “studenti coranici”, e bnnnn averli portati al tavolo è senz’altro un buon risultato. Potersi confrontare a tu per tu con la controparte è sempre positivo, è la base minima per ogni processo di costruzione della pace. Ma si fatica a parlare di successo, perché questo passaggio ha comportato un prezzo elevato, quello di mettere tra parentesi il principio fondamentale della civiltà: la parità tra individui, la uguale dignità di uomini e donne.
In Afghanistan non c’è un’altra metà del cielo: dall’agosto del 2021, quando la capitale Kabul è capitolata, il genere femminile è stato cancellato dalla storia. Niente scuole dopo la pubertà, nessuna possibilità di lavoro se non nell’ambito sanitario o da svolgere senza uscire di casa, nessuna rappresentanza politica o sociale. Da tre anni sullo stesso pianeta in cui donne presidenti, premier, amministratrici delegate, banchiere centrali, ammiraglie prendono decisioni e fanno la differenza, si consuma un medievale apartheid di genere. Inedito nella storia dell’umanità, nella sua calcolata ferocia nel nome di un islam distorto. Finora l’Onu, con numerosi e periodici “statemen” dei suoi inviati speciali, culminati nella Risoluzione 2681/2023 del Consiglio di Sicurezza, ha costituito un argine a ogni possibile rientro dell’Afghanistan nel consesso delle nazioni finché non revocherà le decine di editti discriminatori e, in particolare, il divieto di istruzione e di lavoro femminili.
Ma qualcosa è cambiato. Numerosi Paesi asiatici – Cina e Russia in primis, ma anche India e Turkmenistan – stanno concludendo affari d’oro con l’Afghanistan dei taleban, soprattutto nel settore minerario, del gas e delle infrastrutture. Intanto l’Occidente che tre anni fa ha precipitosamente abbandonato il Paese nelle mani di un gruppo armato di fondamentalisti e che giustamente tiene a distanza di sicurezza l’Emirato islamico, continua a sostenere con ingenti risorse un intero popolo alla fame: nel briefing svoltosi il 21 giugno a Palazzo di Vetro, Roza Otunbayeva, la rappresentante speciale Onu per l’Afghanistan, ha citato l’astronomica spesa di 7 miliardi di dollari finora versati dai donatori internazionali per l’assistenza umanitaria e 4 miliardi per il sostegno ai diritti umani. I risultati non sono particolarmente incoraggianti, e i Paesi donatori, o una parte di essi, forse sono stanchi di stare alla finestra e vogliono la loro parte di business.
Non si spiegherebbe altrimenti l’accelerazione della storia, che vedrà tra pochi giorni i rappresentanti dell’Onu sedersi di fronte ai taleban, dopo aver acconsentito alle loro condizioni, e cioè a escludere dalle trattative le “infaticabili donne” della diplomazia, in particolare le attiviste afghane che dalla diaspora animano il dibattito politico, e quelle – poche ma non inesistenti – ancora impegnate in patria.
Non è solo una esclusione fisica: a Doha non si dovrà parlare di rispetto dei diritti delle donne. Ma i diritti non sono quelli femminili: allargando lo sguardo, i paladini dell’Onu non potranno far presente ai taleban il loro disappunto per lo sfruttamento sessuale a cui vengono sottoposti i bambini a causa della povertà delle famiglie, o per i lavori forzati, o per le lapidazioni pubbliche…
La reazione non si è fatta attendere: su X si diffondono diverse iniziative di protesta, tra le quali la più emblematica è “Boycott Doha 3”, in cui 100 attiviste e difensore dei diritti umani, a capo coperto, proclamano in video “No women on the agenda. No women at the table” (le donne non sono nell’agenda dei colloqui di Doha, nessuna donna è al tavolo). Anche in Afghanistan si registrano sporadiche manifestazioni di protesta. Consapevole di quanto disturbante e ambigua sia questa evoluzione delle relazioni tra i taleban e la comunità internazionale, suonano come giustificazioni quelle esposte dalla stessa Otunbayeva a New York alla vigilia del vertice: «Stiamo avviando un processo di consultazione con Kabul, non stiamo legittimando il regime de facto dei taleban. Larga parte della società civile afghana, comprese le donne, è d’accordo».
Così come non sembra solo una “fortunata coincidenza” la pubblicazione, ieri, del Report annuale dell’Ufficio Onu contro la droga e il crimine in cui si certifica, come ha scritto su queste pagine la collega Lucia Capuzzi, un calo del 95% del raccolto di papavero da oppio. Se è vero che l’approccio dei piccoli passi può essere decisivo in diplomazia, è altrettanto vero che la comunità internazionale si è piegata, anche se dichiaratamente obtorto collo, al diktat degli integralisti. Motivi politici o economici che siano, i piccoli passi non dovrebbero prescindere dall’esigere al proprio interlocutore il rispetto dei principi basilari della civiltà. Ma questo è ciò che accadrà: nell’agenda del meeting di Doha ci saranno la stabilità regionale, l’economia, il narcotraffico ma non l’istruzione femminile, né per estensione, il rispetto dei diritti umani di un intero popolo. Qualcuno lo chiama pragmatismo, o realpolitik. Altri, e soprattutto altre, tradimento.