Opinioni

Africa & energia. L'Algeria reprime il dissenso ma all'Europa serve il suo gas

Antonella Napoli venerdì 26 agosto 2022

Manifestazione di protesta ad Algeri

A 400 chilometri da Algeri, sulle montagne della Cabilia, si erge Kherrata, 35mila abitanti, storica città 'ribelle' berbera. Da qui, il 16 febbraio 2019, si levò alta la voce di migliaia di algerini per dare sfogo alla propria rabbia. «Potere al popolo». «indipendenza per l’Algeria», «generali nella spazzatura » gli slogan che risuonarono nelle strade di tutto il Paese. Nasceva così «Hiràk», in arabo “movimento”, forza ed espressione della società civile che si sviluppò a livello nazionale portando milioni di persone in piazza e determinando pochi mesi dopo la caduta del presidente Abdelaziz Bouteflika, da oltre due decenni al potere.

Le celebrazioni per il 60° dell’indipendenza non cancellano il malessere di un popolo controllato dalle autorità

Parte da qui il racconto della nuova Algeria, crocevia degli interessi energetici dell’Europa, che il 5 luglio ha celebrato il sessantesimo anniversario dell’indipendenza dalla Francia. Celebrazioni che il successore di Bouteflika, Abdelmadjid Tebboune, ha voluto estendere cogliendo l’occasione dell’Eid al-Adha, la «Festa del sacrificio», con un decreto presidenziale che ha concesso al popolo algerino due giorni di ferie pagate, il 9 e il 10 luglio, favorendo così un lungo ideale ponte in concomitanza dei Giochi del Mediterraneo che quest’anno si sono svolti a Orano, ridente località turistica. Eppure, nonostante il clima di festa e prosperità, voluto da Tebboune, a Kherrata – roccaforte del dissenso – le proteste di chi non riconosce al capo di Stato il “cambiamento” riformista di cui ha ammantato la sua presidenza, non si placano. «Le repressioni del sistema di controllo e di sicurezza del Paese non si sono mai allentante. Anche se ha concesso la grazia a molti dissidenti, tra cui il giornalista Khaled Drareni, volto simbolo delle proteste di Hiràk, quasi tutta l’opposizione e le parti sociali, continuano a non fidarsi di Tebboune» spiega il deputato Mohcine Belabbas, fondatore della Coalizione per la cultura e la Democrazia.

E così, a Kherrata come ad Algeri, proprio il 5 luglio in centinaia sono tornati nelle piazze dopo la pausa imposta dalla pandemia. E subito è scattata la repressione del dissenso. «A due anni dalla messa al bando delle proteste di Hirak, il numero delle indagini per infondate accuse di terrorismo è cresciuto. Sono stati adottati controversi emendamenti al Codice penale e avvia- te azioni legali contro le organizzazioni della società civile, i partiti di opposizione e i difensori dei diritti umani» denuncia Hassina Oussedik, direttrice di Amnesty Algeria, che in maggio ha lanciato la campagna #NotACrime. «Le autorità algerine continuano a ridurre al silenzio le voci dissidenti e la società civile indipendente» sottolinea Oussedik. Sostenuta da 38 organizzazioni regionali e internazionali, l’iniziativa di protesta si è sviluppata via social chiedendo alle autorità algerine di porre fine alle repressioni e di rilasciare «immediatamente e senza condizioni» coloro che sono stati arrestati per aver esercitato i loro diritti.

Arresti di chi esprime critiche, violenza delle forze di sicurezza, divieto di contestare il governo.
E i giovani temono di essere sospettati di eversione

«Dall’inizio del 2022 fino a maggio sono oltre 300 le persone finite in carcere. Alcune di loro sono state via via rilasciate, ma gli arresti e le condanne degli attivisti politici, dei sindacalisti indipendenti, dei giornalisti e dei difensori dei diritti umani proseguono» sostiene il noto attivista e intellettuale Zaki Hannache. Oltre alle detenzioni arbitrarie, non mancano le vittime a causa dell’uso della violenza da parte delle forze di sicurezza. La morte in prigione il 24 a- prile di Hakim Debbazi, arrestato due mesi prima per aver pubblicato un post su Facebook, è solo uno degli episodi che attestano gli abusi nei confronti delle persone imprigionate per aver esercitato il loro diritto alla libertà di espressione. Sono centinaia i manifestanti ancora in carcere per aver partecipato alle proteste di Hirak, criticato le autorità, denunciato la corruzione dello Stato o semplicemente per aver espresso solidarietà ai detenuti. Dalla caduta del regime di Bouteflika una parte considerevole della società civile non ha mai smesso di invocare riforme democratiche e sociali.

«L’ Hirak è vivo – assicura Addad – ma la repressione negli ultimi mesi è terribile, come le condizioni in carcere: 40 detenuti per reati di opinione sono in sciopero della fame». Arresti e incarcerazioni si intensificano in occasione di date commemorative, prima tra tutte quella del 5 luglio. «Non solo è vietato organizzare manifestazioni contro il governo – sostiene l’attivista – ma giovani e studenti vivono nel timore di essere arrestati per un post su Facebook, o perché camminano per la strada: la polizia potrebbe sospettare che si stiano dirigendo verso un corteo». La crescente repressione non si è limitata ai dissidenti all’interno del Paese, ma si è estesa agli esuli all’estero, alcuni rimpatriati con la forza e accusati di «partecipazione a organizzazioni terroristiche o non autorizzate». «Sessant’anni dopo la conquista dell’indipendenza, in Algeria le libertà fondamentali e i diritti umani sono ancora calpestati. La detenzione ingiustificata dei manifestanti deve finire. È vergognoso che le autorità continuino a ricorrere a leggi repressive per perseguire persone che hanno esercitato pacificamente i loro diritti» denuncia l’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, Michelle Bachelet.

Accuse piuttosto imbarazzanti quelle rivolte al governo algerino, al centro dell’attenzione internazionale. Ruolo che l’Algeria si è ritagliata in quanto possibile partner per Stati europei – come l’Italia – che sotto il profilo energetico risentono maggiormente le conseguenze del conflitto in Ucraina. «La guerra in corso e la necessità di diversificare le fonti di approvvigionamento per ri- durre la dipendenza dalla Russia hanno spinto i Paesi europei a rivolgersi all’Algeria, già terzo fornitore di gas e partner privilegiato, in particolare grazie al progetto del gasdotto trans-sahariano che offre al Paese molteplici opportunità di aumentare le forniture – afferma l’esperto di questioni energetiche Mahfoud Kaoubi –. La realizzazione di questo mega-progetto è un’operazione eccellente sia in termini di royalties e investimenti per Sonatrach, l’agenzia statale algerina del gas, ma anche per il consolidamento quale prioritario Paese esportatore di gas verso l’Europa».

Il progetto di gasdotto transsahariano dalla Nigeria consolida la posizione di forza anche verso l’Italia, già oggi primo cliente

La concretezza del progetto è stata confermata a fine luglio dall’incontro ad Algeri dei ministri dell’Energia di Algeria, Nigeria e Niger che hanno sottoscritto un accordo per la costruzione del gasdotto sulla base di studi tecnici di previsione che hanno avvalorato la validità dell’importante infrastruttura regionale di respiro internazionale. «Questo risultato rafforza ulteriormente il ruolo dell’Algeria quale Paese chiave. Il fatto che la maggior parte del tracciato del gasdotto (70%) sia su territorio algerino permetterà al Paese di acquisire considerevoli royalties, elemento che renderà il finanziamento dei lavori dell’opera ancora più sostenibile: non c’è dubbio che la stragrande maggioranza dei centri finanziari internazionali sarà disposta a investire in questo progetto visto l’aumento dei prezzi del gas e l’evoluzione del mercato a livello globale» conclude l’analista. L’Italia lo sa bene. Non a caso l’Algeria è prima nei flussi di gas naturale in arrivo nel nostro Paese, superando le forniture dalla Russia. Secondo le previsioni di Snam, dei 181,96 milioni di metri cubi attesi 66,90 milioni proverranno dal Paese africano. A rafforzare la posizione dell’Algeria la scoperta annunciata mercoledì da Sonatrac di un nuovo giacimento di petrolio, Hassi Illatou Est-1, con la conferma delle forniture stabilite negli accordi con l’Italia. A fronte di un tale partner, chiudere entrambi gli occhi sulle violazioni dei diritti umani sembra un compromesso pressoché inevitabile.