Nordafrica. L'Algeria e il suo presidente entrambi di salute fragile
«L’Algeria è in panne». Così, recentemente, una testata giornalistica nordafricana dava conto del complicato frangente politico ed economico attraversato da Algeri. L’ultimo capitolo della lenta agonia del regime di Abdelaziz Bouteflika è rappresentato dal 'licenziamento' del premier Abdel Malek Sellal, incapace di mettere a punto una squadra di Governo (sarebbe stato il quarto di seguito), a favore di un altrettanto paludato Abdelmadjid Tebboune, già ministro dell’Habitat. A seguire, un rapido rimaneggiamento dei ministeri secondo il gradimento della presidenza, intesa in senso allargato visto che l’anziano raìs è in condizioni di salute sempre più critiche. La coincidenza fra sfilacciamento del sistema, incapace di rinnovarsi, e perdurare della crisi economica fa fremere la comunità internazionale. Più volte la classe dirigente algerina è stata invitata da istituti internazionali e nazioni partner a dare uno 'scossone' al Paese, per ora con scarsi risultati. Lo dicono i numeri: se è vero che il 2016 è stato infatti archiviato con una crescita del +4% del Pil rispetto all’anno precedente e che tale risultato è atteso pure per l’anno in corso, è altrettanto giusto sottolineare che, tolta l’industria petrolifera, la crescita supera appena il +1,5%. Davvero poco per un contesto a forte incremento demografico e con un sostenuto potenziale di sviluppo, fra i più significativi in Africa: il nocciolo della questione è che il petrolio è contemporaneamente croce e delizia per il gigante nordafricano, le cui esportazioni sono costituite al 95% proprio dagli idrocarburi.
Nonostante riserve fra le maggiori al mondo (circa 12,2 miliardi di barili di petrolio e 4.500 miliardi di metri cubi di gas naturale), nel medio-lungo termine l’estrazione in Algeria è destinata a crollare. In altre parole, gli algerini hanno il pane ma non i denti per morderlo, perché, come asseriscono gli esperti dell’Agenzia internazionale per l’energia (Aie), la mancanza di investimenti nelle infrastrutture estrattive ridurrà drasticamente la produzione di greggio e gas già entro il 2021. Il sistema estrattivo algerino è in pieno degrado, bisognerebbe ammodernarlo e potenziarlo con grossi capitali. I medesimi capitali, però, servono al Paese per comprare 43 miliardi di euro di importazioni (dato relativo al 2016, peraltro in netto calo rispetto ai 66 miliardi del 2015, dati del ministero del Commercio algerino), contro un export di 27 miliardi di euro (anch’essi in flessione, rispetto ai 45 del 2015). Intanto, la domanda interna assorbe già il 50% circa di quanto estratto.
Che fare allora? Il Fondo monetario internazionale esorta Algeri a muoversi su due binari: lo sviluppo di più filoni industriali, in alternativa a quello estrattivo; la drastica riduzione dei sussidi alla popolazione, equivalenti a circa il 25% del Pil. Il nuovo Esecutivo ci sta provando: una bozza di 'Piano d’azione' è al varo della Camera bassa del Parlamento. Forti cambiamenti di rotta implicano stabilità e coesione politica, ma sul ponte di comando regna l’incertezza. Sellal ha pagato caro il rifiuto degli islamisti del Movimento della società per la pace (Mps, anche chiamato Movimento della società islamica) di prendere parte al suo Gabinetto. Un coinvolgimento che il clan Bouteflika avrebbe visto di buon occhio per 'blindare' gli islamisti moderati in una compagine pro-regime. Le elezioni dello scorso 4 maggio non hanno introdotto cambiamenti di sostanza: la coalizione maggioritaria uscente, composta da Front de libération nationale (Fln, al potere dal 1962), il partito del presidente Abdelaziz Bouteflika, e Rassemblement national démocratique (Rnd), formazione guidata da Ahmed Ouyahia, direttore della segreteria del presidente Bouteflika, si è confermata vincitrice assoluta.
In lieve rimonta i partiti islamisti, fra cui spiccano l’alleanza Msp-Fc e il Rassemblement de l’espoir de l’Algérie ( Taj). In totale, gli islamisti hanno ottenuto 67 seggi (nell’Assemblea uscente erano 60). Bouteflika ha proposto all’asse Msp-Fc di sostenere il governo Sellal, magari anche con qualche dicastero di peso. Ma il braccio politico della Fratellanza musulmana (perché di questo si tratta), pur non avendo invitato i propri elettori a boicottare il voto, ha espresso un secco 'no'. La ragione è semplice: per poter esibire una patente di 'purezza' nel caso di decesso del presidente e conseguente caos istituzionale. Infine, nessun partito della sponda democratica ha ottenuto un numero di voti sufficiente a formare un blocco parlamentare.
Qualsiasi compagine avrà vita dura: tre giorni dopo la nomina della squadra dei 27 ministri, una testa è subito saltata. Quella del titolare del Turismo, coinvolto in uno scandalo giudiziario. Le difficoltà del Governo, tuttavia, sono solo un pallido riflesso della lotta in atto ad Algeri. Tutto pare ruotare intorno all’incognita successione: più di un giornale algerino esibisce un’apposita sezione con articoli dedicati al bollettino medico, alle sortite pubbliche con foto a confronto, persino al curriculum del presidente. Alcuni esperti sostengono che sia già morto, mentre la famiglia ne afferma la candidabilità al quinto mandato, nel 2019. Si sa però che Saïd, fratello minore del presidente, si sta preparando da tempo ad assumere il ruolo di 'uomo della provvidenza' algerina. Per lui, professore universitario, è stata creata la carica di consigliere speciale, con procedura inappellabile. La stampa indipendente algerina è da tempo in guerra contro Saïd: a lui si imputa la creazione di una squadra speciale di 300 tecnici, impegnata a scandagliare i social network 24 ore su 24 a caccia dei detrattori del regime. E sempre a lui si deve – secondo i suoi accusatori – il dimissionamento di Ramtane Lamamra, ministro degli Esteri e diplomatico di caratura internazionale.
Secondo gli esperti, una presidenza ereditaria sarebbe mal digerita in Algeria, ma in Nord Africa tutto può accadere se le Forze armate, corpo centrale del regime, danno il loro placet. A garanzia della tenuta del Paese si erge il generale Ahmed Gaïd Saleh, capo di Stato maggiore e vice ministro della Difesa riconfermato anche da Tebboune. Secondo i sondaggi, lui e i suoi uomini godono ancora della fiducia della maggior parte della popolazione, anche se non mancano le critiche per l’ascesa sociale dei suoi numerosi figli e nipoti. Saleh è un fedele alleato del presidente, ma non della famiglia. Soprattutto a seguito della riforma del Drs, i servizi segreti, ristrutturati fra ottobre 2015 e giugno 2016: nel giro di pochi mesi, il Drs è stato sottratto al controllo militare e ricondotto a quello presidenziale. Un passo non gradito al generale, che ha provveduto a rafforzare un servizio di sicurezza militare interno.
In caso di tempesta, Saleh potrebbe tentare di diventare il nuovo al-Sisi algerino proprio avvalendosi di una coorte tutta sua: secondo indiscrezioni, all’interno dell’Arma sarebbe diffusa la convinzione che nel Paese sia in atto un 'colpo di Stato medico' contro il presidente, orchestrato dal fratello minore e da alcuni uomini d’affari. La debolezza interna non impedisce tuttavia ad Algeri di resistere alle pressioni delle monarchie del Golfo sul 'caso Qatar': il Paese nordafricano non solo non ha aderito all’assedio di Doha, ma ha garantito un approvvigionamento di prodotti agricoli al sultanato finché durerà l’isolamento economico-politico. E svolge un ruolo di mediazione, sollecitato da Teheran, fra i protagonisti. Funzionari dei ministeri degli Esteri di Qatar, Emirati, Iran vanno e vengono da Algeri, nonostante le feste di fine Ramadan, e si appellano alla saggezza di Abdelkader Messahel, numero uno del dicastero algerino, per trovare un compromesso che non disonori nessuno. Uomo discreto e di poche parole, da giorni il ministro non fa che ripetere un concetto: la necessità della 'non ingerenza' nelle scelte politiche di uno Stato. E Messahel ha davvero troppa esperienza per non pensare, in prospettiva, anche alla sua Algeria.