Opinioni

Il post-comunismo/3. La Russia cancella il passato, ma solo quello più scomodo

Giorgio Ferrari giovedì 26 luglio 2018

Un monumento a Karl Marx a Mosca

La folla che sfila a passo di marcia davanti al sempre cupo edificio della Gosudarstvennaja Duma, quei giovani che sgambettano frettolosi di primo mattino all’uscita della metropolitana per raggiungere il posto di lavoro, quei crocchi di ragazze che sciamano attorno ai palazzi del potere gettando uno sguardo fugace alle vetrine del Gum, il grande magazzino che oggi – tra una vetrina di Prada e una di Cartier e il ritmo crepitante dell’innocuo rock delle popstar Grigorij Leps e Dima Bilan – raduna e assorbe quel corteo di vessilli del lusso occidentale un tempo esecrati come un demonio tentatore, non lasciano dubbi. La Russia di oggi è un grande camaleonte, un immenso laboratorio dove si è sperimentata senza spargimento di sangue una immane conversione. Benvenuti nella Belle Époque putiniana, con la sua tranquilla normalità, con i servizi che funzionano, gli stipendi regolarmente pagati, quel pizzico di indispensabile trasgressione scandito dal re dei rapper russi Timati e il prestigio internazionale riguadagnato con l’astuzia e la spregiudicatezza che il nuovo zar ha mostrato di saper adoperare meglio di chiunque altro.

Ma a duecento anni dalla nascita di Marx dove si è rintanato il comunismo? Sepolto e imbalsamato nel mausoleo sulla Piazza Rossa che conserva geloso le spoglie di Lenin? Racchiuso nel silenzio dei ricordi dei tanti – molti di più di quanto non si creda – che macinano ancora oggi un cupo rimpianto degli anni precedenti il crollo dell’impero sovietico («Una catastrofe mondiale», come l’ha definita Vladimir Putin) e assegnano a Mikhail Gorbacev la colpa imperdonabile di aver svenduto la Russia all’Occidente? Non è facile trovarne le tracce. Il primo choc lo subiamo a San Pietroburgo. Lì, fra i magici canali di quel balocco dai colori pastello appoggiato su un malsano acquitrino lambito dalla Neva che ha visto scorrere la storia nella tempestosa mutevolezza della sua toponomastica (San Pietroburgo, Pietrogrado, Piter, Leningrado, di nuovo San Pietroburgo) e nel corteo inesauribile dei suoi figli illustri, da Puškin a Gogol’, da Turgénev a Mandel’štam, da Rasputin a Brodskij, alla Achmatova, a Šostakovi, fino allo stesso Putin, il passato comunista è svanito, nonostante il centenario della Rivoluzione. Non una mostra, un convegno, una manifestazione, niente.

«Me ne ha parlato qualche volta mio padre – dice Roman, originario del Donbass ucraino, che lavora all’Hotel Angleterre – ma sono cose di tanti anni fa. Siamo stati degli eroi, mi hanno detto». Ecco, la Grande Guerra Patriottica, quella che ha sconfitto il nazismo, questa è rimasta nella memoria. Del soviet, della sommossa nelle fonderie di Vyborg, del colpo di cannone dell’incrociatore Aurora, di Lenin stesso – oggi incastonato fra le vetrine di un concessionario Roll’s Royce e un McDonald’s in una misera stele di basalto non più grande di un tabloid – non è rimasto niente. Una damnatio memoriae, tutt’altro che casuale. A Mosca non va meglio. Certo, esiste un partito comunista, quello di Gennadij Zyuganov, eterno perdente di fronte al massiccio consenso che raccoglie Putin, perché «nessuna ideologia può essere stabilita come statale o obbligatoria», come recita l’articolo 13 della Costituzione russa, entrata in vigore nel 1993. Ed è in questa meravigliosa ipocrisia che si nasconde l’anima segreta del comunismo che non c’è più. Quella che – come racconta racconta nel suo Tempo di seconda mano il Premio Nobel Svetlana Aleksievic – fa dire agli orfani del Pcus e del grande apparato che reggeva, governava e controllava l’Urss: «Dov’è finito il nostro partito? Il nostro invincibile partito leniniano?». È vero, ci sono ancora oltre cinquemila statue di Lenin in tutta la Federazione Russa, ma sono un’icona vaga, una reliquia della smemoratezza. I giovani ne sono completamente estranei. «Sono nato l’anno della caduta del Muro di Berlino – dice Platon Plekhanov, Senior Business Consultant della Bearing Point a Parigi –. Il comunismo esiste ancora, ma nelle sacche morenti della popolazione: i vecchi, gli abitanti di cittadine remote e poco popolate, dove effettivamente il comunismo contava qualcosa. Ma il centenario della Rivoluzione in realtà non interessa più a nessuno…». «Money, money, money, come dite voi in Occidente. Questa è diventata la Russia: potere e denaro, nient’altro«, ridacchia Yuri, studente universitario. «È il capitalismo autocratico – spiega il politologo Charles A.Kupchan – intreccio perfetto fra economia, politica e religione».

Ma non è del tutto vero. Il sottile capolavoro di Putin, l’ex funzionario del Kgb, il grande camaleonte dal 70 per cento di consensi cui è stato perfino dedicato un inno, Putevodnaya zvezda, Stella-guida, ha fatto molto di più. Come Stalin, che nel momento dell’assedio di Leningrado riesumò la Chiesa Ortodossa, così Putin ha riannodato il legame fra Il Patriarcato e lo Stato russo. Ma non solo: anche qui, attenzione agli anniversari, perché si cammina sulle uova. Il 17 luglio di cento anni fa una squadra della Ceka – la polizia segreta di Lenin – occultava i cadaveri dei Romanov trucidati da un plotone di bolscevichi ungheresi (difficilmente i russi, ancorché rivoluzionari, avrebbero sparato sullo zar) a Casa Ipatev a Ekaterinburg. I corpi dello zar Nicola II, di sua moglie Aleksandra, dei cinque figli Aleksej, Olga, Tatiana, Marija e Anastasija furono dati alle fiamme e sbrigativamente seppelliti in un bosco ai piedi degli Urali. Casa Ipatev, considerata dalla propaganda 'l’ultimo palazzo dello zar', divenne meta di pellegrinaggi. Troppi e troppo imbarazzanti, per il regime, formalmente ateo e comunista. Tanto da ordinarne la distruzione nel 1977 ad opera di un giovane Boris Eltsin (allora primo segretario dell’oblast di Sverdlovsk). Non servì: i pellegrinaggi continuavano ugualmente. Al posto di Casa Ipatev si è finito per edificare una chiesa, la Khram na Krovi, Cattedrale sul Sangue, terminata nel 2003. Una delle diecimila chiese nate in questi anni putiniani.

La memoria russa del resto è assolutamente bidirezionale: di qua cancella il lungo inverno comunista, di là esalta come totem fondativo del passato sovietico l’eroismo bellico di Stalingrado, Berlino, Kursk. Un recente sondaggio indica che molti russi – che sognano di avere un figlio nei siloviki, le forze speciali di sicurezza – continuano a considerare Stalin un amato padre della patria e Kruscev e Gorbacev due malfattori che hanno indebolito e poi abbattuto la grandezza sovietica. Non è un caso che Putin (pardon: il ministero della Cultura) abbia tassativamente vietato la diffusione in Russia del film satirico Death of Stalin, caustico adattamento di una fortunata graphic novel e diretto dall’italiano Armando Iannucci, giudicato 'velenoso e disgustoso' perché infanga la memoria del Piccolo Padre e gli intrighi che seguirono la sua agonia. A ispirare Putin è il filosofo Ivan Ilyin, la cui visione dell’identità nazionale russa che già a suo tempo influenzò Solzenicyn sembra perfetta per quel populismo nazionalista che coniuga la forza (i russi la amano sopra ogni cosa e disprezzano la debolezza) con una rinata istanza morale e spirituale; asiatica, prima che europea, la nuova Bisanzio come contraltare perfetto dell’Occidente e dei suoi valori negativi. Ma allora il comunismo? Forse è davvero relegato nell’archeologia storica, ma certo non sono scomparsi i suoi metodi: la dezinformatsija, per cominciare, il controllo capillare sui sospiri più segreti del popolo per finire. Dal 1 luglio le compagnie telefoniche e i provider di internet sono obbligati a conservare per sei mesi ogni conversazione, ogni sms, ogni chat dei propri utenti mettendoli a disposizione dei servizi di sicurezza. «Ufficialmente per contrastare il terrorismo – spiega la già fiacca opposizione – di fatto per controllare oppositori e dissidenti». Dall’altro lato invece si tende a cancellare le tracce di una memoria ingombrante: come le carte e gli archivi dei gulag, i nomi dei milioni di deportati. Si è cominciato alle isole Solovki e si continua ad eliminare gradualmente le testimonianze dell’immenso arcipelago dei forzati svelato da Solzenicyn. Sparisce il comunismo, resta il sistema sovietico. Con la sua memoria artificiale e la formidabile fabbrica del consenso su cui domina incontrastato Vladimir Putin.

(3- Fine - Le puntate precedenti su Vietnam e Cambogia sono state pubblicate il 15 maggio e il 7 giugno)