ContrEconomia /6. La religione del consumo, e oltre
La pietà sta alla religione come la poesia alla letteratura: ne è la cima più alta,... con una differenza, tuttavia, che poeti si è in pochi, pii si può essere tutti.
Giuseppe De Luca, Introduzione alla storia della pietà
La Resurrezione è il centro della fede cristiana. Non sempre, però, è stata il centro anche della pietà popolare cattolica. La storia del cristianesimo ha conosciuto molte “eclissi della Resurrezione”. Una particolarmente lunga e decisiva è avvenuta durante l’età della Controriforma. Una premessa. Il Medioevo aveva creato la sua civiltà distinguendo la vita monastica dalla vita civile. L’immaginario di un Medioevo tutto cristiano dice qualcosa di vero solo se guardiamo monasteri e abbazie e quelle porzioni di mondo che i monaci e le monache riuscivano a contagiare. La cultura cristiana era essenzialmente una faccenda monastica e di alcune élite urbane. Ma la gran parte della gente che viveva nei piccoli centri, nelle campagne e nelle montagne conosceva molto poco della fede cristiana, e le pratiche religiose erano sostanzialmente quelle “pagane” – latine, celtiche, sassoni, picene... –, con alcuni influssi cristiani che spesso si limitavano a nomi nuovi per antichi riti, spiriti e divinità. Da questo punto di vista, il cristianesimo non era la cultura di massa del Medioevo.
Con la Riforma salta anche la distinzione medioevale tra monastero e popolo. Dopo Lutero, le regioni protestanti chiusero i monasteri e cercarono di trasformare il monastero in città. L’ora et labora uscì dalle abbazie e divenne la legge etica dell’intera civiltà protestante, in una liturgia laica. I monaci di ieri divennero i “lavoratori”, il lavoro (labora) incorporò al suo interno la preghiera (ora). Anche nel mondo cattolico si superò quella dicotomia medievale. Con la Controriforma il popolo vive un suo nuovo e inedito protagonismo religioso. Ma qui fu la religione a occupare il lavoro: i “monaci” di ieri divennero i devoti, la pietà invase il lavoro. Così, mentre il Nord Europa iniziava a inventare il capitalismo, nel Sud cattolico il lavoro, la grande eredità medioevale di artigiani e mercanti, fu invece assorbito da una devozione che riempì progressivamente l’intera vita del popolo. La creazione di una «Europa dei devoti» (Louis Châtellier) fu un progetto intenzionale religioso e sociale del Concilio di Trento, un piano molto ambizioso. I vescovi e il Papa presero coscienza dello stato sostanzialmente pagano di molta popolazione “cristiana”. Iniziò così una nuova azione popolare in Europa, e presto nei continenti. Un progetto immenso e impressionante: la grande diffusione del cattolicesimo nel mondo moderno è il risultato della rifondazione popolare controriformista.
La prima e fondamentale strategia del progetto tridentino fu “battezzare” la religiosità meticcia delle campagne e del popolo. La Chiesa cattolica fece in età barocca qualcosa di simile a quanto fatto dai cristiani nei confronti del mondo greco-romano nei primi secoli, che presero molto delle pratiche religiose esistenti e ci edificarono sopra la nuova religione. Analogamente, i nuovi ordini, i vescovi e i parroci formati nei seminari risemantizzarono tutto il sacro che trovarono. E nacque la cultura barocca. Sono i secoli dell’esplosione delle immagini sacre, delle edicole nei crocicchi, dei patroni in ogni villaggio, dei santi protettori di ogni ambito e momento della vita. E grazie al nuovo culto finalmente popolare nacque la cultura cristiana – ogni cultura di massa nasce da un culto, incluso il culto capitalistico. La religione coprì tutto lo spazio e tutto il tempo della vita, la liturgia non fu più prerogativa dei soli monaci e divenne la vita del popolo. Lo spazio e il tempo vengono infatti segnati e insegnati come spazio e tempo sacri. I luoghi (urbani e rurali) furono marcati da una infinità di simboli, e il tempo delle famiglie divenne una forma semplificata di “liturgia delle ore”. Il tempo sacro bucò l’orizzonte umano sconfinando nel culto del Purgatorio e delle sue “anime”, che divennero abitanti presentissimi del nuovo mondo.
Tutto cambia. Con l’Umanesimo (almeno dopo Giotto) le chiese erano decorate anche con scene terrestri, con donne e uomini delle città accanto a Cristo e ai santi. Con l’arte barocca i temi rappresentati sono sempre più quelli celesti (Maria glorificata), e le chiese vengono inondate da miriadi di angeli. La terra promessa diventa l’altra vita, l’ideale dell’uomo diventa l’angelo: «E ora dà uno sguardo a coloro che si trovano sulla scala: sono uomini con il cuore di Angeli, o Angeli con il corpo di uomini» (Francesco di Sales, Introduzione alla vera devozione). In una omelia per un giorno di Pasqua di fine Seicento il grande predicatore gesuita Paolo Segneri, famoso per i suoi dialoghi con i teschi, così proclamava: «Patisca pure questo misero corpo, si maceri, si mortifichi, e con arti ancora più orribili si distrugga; beato lui! Il frumento ha da fiorire, né potria rifiorire se non marcisse» (Quaresimali del padre Paolo Segneri, 1835, p. 233) – e questa era la predica pasquale: lascio al lettore immaginare quella del Venerdì Santo!
In questa lunga notte oscura dell’umano concreto e del corpo esplodono naturalmente l’esaltazione della morte, le mille confraternite, le compagnie di suffragio, la venerazione delle reliquie. Alcune di queste pratiche erano presenti già nel Medioevo, ma ora non sono più una faccenda di élite urbane o nobili: nasce la vera pietà popolare. La sola vita che conta è quella futura. Il culto dei morti diventa più importante del culto dei vivi. La nota frase di Lutero sul cristianesimo romano – «una religione di vivi a servizio dei morti» – diventa davvero realtà nella civiltà barocca. È l’eclissi della Resurrezione su questa terra. La vita cristiana viene prevalentemente costruita attorno al dolore, interpretato e teorizzato come «moneta graditissima a Dio». Nasce un “cattolicesimo del Venerdì Santo”, qualche volta del Sabato, senza mai arrivare alla Domenica. E un cristianesimo senza Domenica diventa facilmente disumanesimo, dove Dio non è più il Dio biblico liberatore degli uomini ma il loro consumatore, come gli idoli. Nessuna religione può essere amica di Dio se per innalzare Dio abbassa l’uomo, se per aumentare l’amore a Dio chiede di aumentare il dolore umano.
Non stupisce allora che tra il Cinquecento e il Seicento si sviluppano nel mondo cattolico le Vie Crucis, e con queste tutta una proliferazione di immagini, dipinti, santini, cartelami, cappelle, Monti Santi. L’energia vitale e spirituale del popolo fu così orientata verso pratiche devozionali non-generative, per certi versi innocue, ma per altri dissipative e tossiche, che non hanno aiutato né la religione né la società, che si allontanavano dalla buona novella di agape del Nazareno.
E qui troviamo un altro dato che appare paradossale, con conseguenze interessanti per l’economia. Mentre la vita spirituale dei singoli diventava sempre più centrata sulle penitenze, sulla cultura della colpa, sul dolore necessario per meritarsi il purgatorio..., le liturgie collettive diventavano invece sempre più emozionali. Forse come forma inconscia di compensazione, quando il penitente, mortificato e oppresso da cilici, cordicelle e dal terrore della morte, arrivava in chiesa o partecipava a una processione, tutti i suoi sensi erano sollecitati e soddisfatti: l’olfatto (incensi), il tatto (le statue da toccare), l’udito (musica e canti), la vista (dipinti, reliquie, spettacoli), il gusto (il Pane eucaristico). Processioni (Corpus Domini), pellegrinaggi, Messe, Via Crucis erano esplosioni sensoriali in un mondo dominato dal dolore e dai teschi. In una teologia e una Chiesa del Venerdì Santo le liturgie erano invece esperienze corporee piacevoli. Quel corpo, disprezzato e svalutato nella teologia e nei confessionali, veniva accarezzato dalla liturgia. La carne castigata nel privato si consolava (un po’) in pubblico.
Ma è proprio qui che si insinua un argomento delicato quanto necessario. La liturgia, soprattutto la Messa, assume sempre più per i fedeli laici la forma di uno spettacolo, dove il sacerdote, separato sacramentalmente e spazialmente dal popolo, “produce” un bene (l’Eucarestia) che i cristiani “consumano” senza partecipare alla sua produzione, senza doverlo co-generare attivamente. I fedeli diventano consumatori del bene liturgico, perché questa era l’esperienza concreta che il popolo faceva. Diversamente dal mondo protestante, dove la Santa Cena viene generata dalla comunità (non dal ministro), la liturgia eucaristica della Controriforma ha creato nel tempo (come un fattore tra i molti) una cultura del consumo, che dalla religione si è estesa naturalmente alla vita economica e civile, dove il cittadino tende ad aspettarsi il “pane” dall’alto senza sentire il bisogno di co-generarlo (basterebbe pensare alla nostra cultura delle tasse o all’assistenzialismo). Abbiamo rafforzato la nostra italica tendenza a competere con gli altri attraverso i beni di consumo, e quindi una cultura posizionale, rivale e invidiosa, che sono ancora oggi malattie socio-economico del nostro Paese.
Non siamo, pertanto, rimasti molto stupiti quando con alcuni colleghi (A. Smerilli, V. Pelligra, P. Santori) abbiamo fatto uno studio empirico su come Paesi protestanti e Paesi cattolici avevano reagito durante il lockdown alle liturgie diventate on-line (The gnostic pandemic, 2022). Dai dati è emerso un mondo cattolico meno preoccupato di quello protestante dell’abbandono della Messa in presenza. Nei nostri cromosomi religiosi e sociali è forse ancora attivo il retaggio di secoli di “Messe spettacolo” vissute come esperienze di consumo. Come non stupisce che ancora oggi i Paesi di tradizione cattolica superino di molto i Paesi a prevalenza protestante per il tempo “consumato” davanti alla tv (fonte: OfCom, Uk).
Questa che ho raccontato è solo una parte della storia. L’altra parte ci dice che il popolo è più grande delle ideologie. Da bambino ricordo che durante i funerali si recitava una preghiera incomprensibile. Da grande ho scoperto che era il famoso Dies Irae: «Dies Irae, dies illa solvet saeculum in favilla...». La mia gente ascolana l’aveva trasformata in: «Diasilla, Diasilla, secula in secula sfavilla: io ti prego Gesù, Gesù mio di gran dolore». I miei vecchi non capivano il latino né la teologia, ma i “gran dolori” di Gesù e di Maria li capivano molto bene perché erano anche i loro. E così, in un mondo religioso spettacolare, piangevano veramente davanti alle immagini, che erano ricoperte di sangue e lacrime vere. E chissà cosa pensavano, in cuor loro, mentre toccavano le statue o nelle loro Vie Crucis. Credo pregassero diversamente, trasformavano ogni giorno il Dies Irae nel «mio Gesù di gran dolore».
Ce lo ricorda anche uno splendido canto siciliano, dove Maria la mattina della passione esce di casa per cercare suo figlio. Incontra un fabbro e inizia un meraviglioso dialogo (tradotto): «“Oh caro mastro, che fate a quest’ora?”. “Faccio tre chiodi apposta per il Signore”. “Oh caro mastro, non li fate, a quest’ora vi pago la giornata e la mano d’opera”. “Oh cara Madre, non posso, altrimenti a posto di Gesù mettono me”. Appena la Madonna sentì questa risposta fece mettere sottosopra mondo, terra e mare».
Ci siamo salvati da teologie parziali e sbagliate perché gli uomini – le donne, soprattutto – hanno saputo far dire alla religione cose che questa non voleva né sapeva dire, e hanno messo sottosopra mondo, terra e mare. E così, con il loro amore-dolore infinito, hanno fatto risorgere la loro religione mille volte, e continuano a farlo. Buona Pasqua.
l.bruni@lumsa.it