Un terzo è verso Pechino. La Lunga Marcia d'Africa e il debito da cancellare
La speranza di tanti è che la Lunga Marcia di conquista dell’Africa da parte della Cina conosca una tregua, che porti alla cancellazione di almeno una parte dei debiti bilaterali che Pechino vanta nei confronti delle più disastrate economie del Continente. È quello che chiede anche la campagna lanciata nei giorni scorsi dal dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale della Santa Sede. Una prospettiva che deve però fare i conti però con la strategia di un gigante che ha saputo governare le due grandi crisi degli ultimi decenni, quella dei mutui prima e quella della pandemia adesso, mettendo le mani su quanto una volta 'possedevano' solo i potentati d’Occidente. E lo ha fatto senza grosse difficoltà, con un’azione sistematica e paziente. Il sistema delle scatole che si infilano una nell’altra, non per nulla viene chiamato 'cinese'.
Un piccolo esempio: in Etiopia, la società di energia cinese State Grid ha acquistato una quota da 1,8 miliardi nella società elettrica nazionale in cambio della cancellazione di una piccola quota del debito pubblico aperto con la Cina. L’Etiopia è il Paese che ha costruito la più grande diga africana sul Nilo, scatenando le ire di Egitto e Sudan, e appena il riempimento dello sbarramento sarà completato Pechino decuplicherà immediatamente i guadagni legati alla propria quota. E così è per tutto in Africa, in quella che si definisce la 'terza colonizzazione' del Continente: prima i potenti d’Europa sino alla spartizione nella Conferenza di Berlino di fine Ottocento, poi il ritorno dei vecchi signori sotto mentite spoglie e ostentati affari con i dittatori post-coloniali, o ora la presa dei nuovi 'padroni', primo fra tutti Pechino, con l’utilizzo dello strumento del debito. Il Continente ha una sofferenza totale stimata ormai in quasi 400 miliardi di dollari, e questo debito per un terzo abbondante è detenuto proprio dalla Cina. Miliardi di tossine accumulate da governi, spesso dittatoriali e corrotti (almeno nel loro passato recente), con il triste concorso di Banca mondiale e Fondo monetario internazionale per colpa dei nefasti piani di ristrutturazione del debito negli anni Ottanta del Novecento, che in Africa, come in America Latina, hanno lasciato vittime ancora non sepolte. In realtà, gli obblighi di debito verso Pechino sono considerati «gravi» nel caso di Gibuti, Repubblica democratica del Congo, Etiopia, Kenya, Zimbabwe e Zambia.
La Cina ha prestato oltre 147 miliardi di dollari ai governi africani tra l’inizio del secolo e il 2018. Cifra che riassume il 20% degli obblighi totali del Continente, mentre il debito multilaterale è salito al 35% e il debito privato al 32%. Le banche della Repubblica popolare sono il principale strumento di prestito bilaterale per 32 nazioni africane, superando già due anni fa Banca mondiale per ammontare di denaro messo a disposizione. Cifre da far tremare le vene ai polsi di qualsiasi governante, tranne quelli che continuano ad alienare i gioielli di famiglia offrendoli in pegno al banco cinese: porti strategici, con annesse ferrovie (fabbricate a credito dalle società di Pechino), petrolio, foreste... E sempre più questa schiavitù del debito è diventata anche 'politica'. Un caso sui tanti: durante il golpe in Zimbabwe, che ha portato nel 2017 alla caduta del dinosauro Robert Mugabe, nelle vie di Harare erano schierati i blindati cinesi per garantire un 'tranquillo' cambio di regime.
Così, un taglio del debito che soffoca lo sviluppo africano, che impedisce ogni possibile ripresa post-pandemia e che non lasci inalterati gli equilibri finora retti dalle politiche dello sfruttamento a basso costo, non può non passare dal viale Chang’an (la traduzione suona ingannevolmente come la via della Pace eterna) a Pechino. Oltre ad aver aderito alla moratoria sui pagamenti decisa dal G20, la Cina ha fatto l’anno scorso un passo in avanti usando per la prima volta il termine «cancellazione». A livello internazionale anche il Fmi lo ha fatto: un’operazione da 500 milioni di dollari. Xi Jinping non si è però sbilanciato in percentuali o numeri. E quello che sinora è avvenuto è il taglio della piccola parte del debito derivante dai 'prestiti a interessi zero' ai Paesi più poveri. Una mossa che il governo di Pechino aveva già fatto in passato, l’ultima volta nel 2018.
Ma il passo in avanti sarebbe incidere sul grosso del debito, quello più 'qualificato', quello che finanzia lo sviluppo. Una quota sulla quale nessun Paese intende fare sconti. Dunque non si può puntare il dito solo sulla Cina, per la quale si tratterebbe di mettere a bilancio delle grandi banche controllate dal Partito comunista perdite ingenti, mentre milioni di concittadini il miracolo economico cinese lo vedono ancora con il cannocchiale...
La speranza che l’appello alla cancellazione del debito venga preso sul serio, pure a Pechino. Anche se, come già è accaduto, posizioni e gravami verranno rinegoziati singolarmente, caso per caso, magari allungandone le scadenze. Si potrà attivare almeno una sorta di minima solidarietà. Non è nell’interesse di alcun creditore che i partner debitori vadano in default.