Il ritorno alla partecipazione. La forza che la Messa sa accendere nei cristiani
Lunedì scorso, anche se con cautela, siamo tornati a Messa. Come ha detto l’Arcivescovo di Milano, si è aperta una sorta di periodo di «riabilitazione» che avrà una certa macchinosità. Bisognerà procedere, diceva Delpini, «con determinazione, perché se uno non ci mette la buona volontà non si riabilita. Però anche con gradualità e prudenza, perché se uno fa le cose troppo in fretta rischia di riprendere i dolori che il trauma ha causato».
La Chiesa procede, attenta ma sicura, verso la piena ripresa dell’incontro con Cristo nei sacramenti. È la strada che aveva indicato il Papa il 17 aprile quando, in una delle memorabili omelie di Santa Marta, aveva coniato uno dei suoi famosi neologismi, quello di “non viralizzare” la Messa e i sacramenti, facendo intendere cioè che, appena sarebbe stato possibile, si sarebbe tornati alla comunione sacramentale: quella reale, non mediatica. «Questa è la Chiesa di una situazione difficile – aveva detto –, che il Signore permette, ma l’ideale della Chiesa è sempre con il popolo e con i sacramenti. Sempre».
La vera domanda, per noi cristiani, è come il ritorno a Messa ha cambiato la nostra vita. I nostri colleghi e amici si accorgeranno che per noi è meglio andare in Chiesa invece che guardare papa Francesco o il vescovo o il parroco in diretta streaming o su YouTube? Non sarebbe bello scoprire che il ritorno a Messa “sazia” sì la nostra fame di Dio, ma che tutto finisce lì. Sarebbe terribile cioè, se terminata la celebrazione, ci scoprissimo pagani come prima, centrati su noi stessi e non sugli altri come se non fossimo inseriti nel Corpo di Cristo.
Per il cristiano, in particolare per il laico, la Messa non è solo un “appuntamento spirituale” e neppure, mi sentirei di dire, la “vetta della vita”. Dopo la prima comprensibile emozione per un ritorno alla comunione nella nostra parrocchia, cioè, in qualche modo “un ritorno alla casa del Padre”, dovremmo sentire la voglia di andare per strada a portare Cristo. Come diceva don Tonino Bello, «andati a Messa, la pace è finita».
Il frutto dell’Eucarestia dovrebbe essere lo scatenarsi di una forza prorompente che cambia il mondo, smaschera idolatrie, sta vicino ai poveri. La Messa non è un momento di ristoro, un angolo di pace spirituale. È, piuttosto, il filo che, portandoci per strada, negli uffici, in casa, tesse la nostra quotidianità. Lunedì è accaduto qualcosa che in Italia non era mai avvenuto. Improvvisamente sono tornati a Messa tantissimi cristiani che da mesi non c’erano più andati. Non so dire il numero esatto perché non credo ci siano statistiche sulle Messe feriali, ma dal 18 maggio sono circolate per le strade del nostro Paese migliaia e migliaia di persone che da mesi non si erano unite sacramentalmente al corpo di Cristo e che improvvisamente lo erano di nuovo.
Noi preti durante il periodo di chiusura delle Chiese abbiamo celebrato lo stesso e ci siamo comunicati: i laici, invece, hanno avuta un’occasione unica e irripetibile per capire finalmente cos’è la Messa per loro, per chi vive in mezzo al mondo. Dopo pochi giorni dall’inizio del lockdown tutti ci siamo sorpresi delle acque trasparenti di Venezia, dell’aria pulita della Val Padana e dei delfini a Posilippo. A partire dal 18 maggio è avvenuta, nel nostro Paese, un’analoga immissione di ossigeno grazie ai cristiani “eucaristizzati”? Sarebbe triste scoprire che la Messa di un prete meno bravo del Papa ma che ci dà il Pane Consacrato, il Corpo di Gesù, è meno importante di quella in streaming.
Non dimentichiamo che per lungo tempo quel “memoriale” che in seguito si chiamò Messa (da una delle parole della formula conclusiva del rito in latino) si celebrava una volta la settimana, la domenica; che solo successivamente si celebrò anche il mercoledì e il venerdì e che, solo a partire dal secolo IX, divenne “Messa quotidiana”. Eppure i secoli senza la Messa quotidiana sono stati quelli dei primi cristiani, di quei cristiani cioè che hanno evangelizzato il mondo.