Il Venezuela non «incorona» Maduro. L'amara vittoria del caudillo
Mai una vittoria ha avuto il sapore tanto amaro della sconfitta. A trionfare in Venezuela non è stato il presidente Nicolás Maduro, bensì l’astensione. Domenica alle urne si è recato, secondo le cifre governative, il 46 per cento dei cittadini. Poco più della metà della quota abituale. Alle presidenziali più recenti – 2006, 2012 e 2013 –, l’affluenza aveva sfiorato l’80 per cento. Un messaggio potente per l’esecutivo che in questi comizi si giocava molto più di altri sei anni di mandato. Maduro puntava alla riconferma plebiscitaria. Per ottenere una legittimazione 'tridimensionale': agli occhi dell’opposizione, della comunità internazionale e del suo stesso schieramento. Negli ultimi mesi, il leader ha profuso enormi energie nel conseguirla. Con misure che vanno dall’estromissione dalla competizione degli avversari più temibili alla promessa di aiuti extra, garantiti da un’apposita «scheda della patria». Il presidente-candidato non ha esitato a mettere la popolazione di fronte all’alternativa tra «voti o pallottole» durante la campagna. Alla fine, però, Maduro ha perso la sua triplice scommessa. In primis, i risultati hanno ricompattato, nel disconoscimento unanime, il fronte anti-chavista, spaccato da oltre un anno in fazioni antagoniste. Il rifiuto di Henri Falcón, l’unico oppositore ad aver acconsentito a sfidare l’esecutivo 'ad armi impari', ad accettare la sconfitta, lo hanno riavvicinato alla Mesa de unidad democrática (Mud). La strategia del boicottaggio promossa da quest’ultima ha coagulato un consenso trasversale che riunisce il 54 per cento dei venezuelani. Con l’aggiunta del 21 per cento di Falcón tra i votanti – sempre in base ai dati ufficiali –, la Mud rappresenta quasi i due terzi della popolazione. Inclusi un buon numero di maduristi delusi, rimasti a casa nonostante le lusingheintimidazioni del leader. Un capitale politico enorme. Maggiore perfino di quello ottenuto con il successo alle politiche del 2015 e poi sprecato in inutili guerre intestine.
L’ennesimo strappo del successore di Hugo Chávez alla legalità democratica, dopo la controversa Costituente, ha obbligato, inoltre, la comunità internazionale ad alzare la voce. Stati Uniti, Europa oltre a quattordici Paesi latinoamericani hanno respinto l’esito delle presidenziali. È improbabile, nel breve periodo, che l’Amministrazione Trump – cliente cruciale del petrolio di Caracas – arrivi a un embargo totale delle importazioni, nonostante la retorica infuocata. All’orizzonte, però, si profilano nuove sanzioni nei confronti dei dirigenti chavisti. La prima tranche è già arrivata da Washington all’indomani del voto. Dal punto di vista degli equilibri interni, infine, la 'vittoria di Pirro' di Maduro non fa che accrescere le frizioni. Con l’ala moderata, disponibile a concessioni agli avversari per allentare la pressione esterna. E con il settore duro, riunito intorno al numero due Diosdado Cabello, fautore di un ulteriore giro di vite per stroncare sul nascere il dissenso, reale o presunto. A unirli, l’astio verso l’imprevedibile e altalenante presidente.
È dalle proteste della scorsa primavera-estate che il governo venezuelano non appariva tanto fragile e isolato. Tale vulnerabilità apre uno spazio di manovra politica importante. Innanzitutto per l’opposizione. Forte del risultato, essa ha l’opportunità di ripartire da una strategia finalmente unitaria per costringere il governo a farsi carico del dissesto economico e sociale del Paese. La comunità internazionale, da parte sua, ha un inedito margine di manovra per compiere insieme un’azione diplomatica di ampio respiro, lontana dagli slogan propagandistici, degli sterili avventurismi e delle contrapposizioni manichee. Per chi ha a cuore le sorti del Venezuela è il tempo della 'saggezza'. Quella a cui ha fatto riferimento papa Francesco al termine del Regina Coeli di domenica. L’unica 'arma' indispensabile in politica interna come internazionale per 'trovare la via della pace e dell’unità'.