Libia. Intercettazioni giornalisti a doppio taglio, tra illegalità e legalità ingiusta
Inconcepibile e intollerabile. Ha ragione Danilo Paolini: le intercettazioni (disposte dalla procura di Trapani nel 2016) che hanno coinvolto alcuni giornalisti di varie testate - soprattutto Nancy Porsia e, tra gli altri, Nello Scavo di “Avvenire” - che contattavano loro fonti per avere notizie sul traffico di esseri umani in Libia e sui soccorsi umanitari, sono semplicemente intollerabili. Ma, purtroppo, non stupiscono. Soprattutto: quelle intercettazioni sono state disposte rispettando la legge. Questa è la cosa più grave. Intendiamoci. Alcune cose, tra quelle riportate dai giornali, sarebbero illegali. Ad esempio, se fosse confermato che sono rimaste agli atti e sono state trascritte e depositate le telefonate captate tra la giornalista freelance Porsia e il suo avvocato Alessandra Ballerini, ciò sarebbe illegale (articolo 271 del Codice di procedura penale). La Procura di Trapani, oggi, ha assicurato che non sarebbe così.
Ma, per il resto, ciò che ha fatto il pubblico ministero di Trapani non è censurabile. E non è così inusuale. Egli ha intercettato persone non indagate, che erano in contatto con indagati, al fine di raccogliere notizie penalmente rilevanti su questi ultimi. Il codice lo consente. Sennonché. Come sempre: non basta invocare di aver fatto una cosa rispettando la legge per poter dimostrare di aver fatto una cosa giusta. A nessuno verrebbe in mente di contestare il fatto che si intercetti il telefono dei parenti o amici di famiglia di una vittima di un sequestro di persona, che potrebbero essere contattati dai sequestratori. O che si controlli il telefono di un imprenditore, vittima di estorsione e indotto alla reticenza dalla forza di intimidazione dei criminali. Quindi, sarebbe impensabile invocare una legge che consenta di intercettare soltanto persone indagate.
Ma la legge andrebbe applicata con buon senso. E ai magistrati, che ogni giorno invocano il diritto-dovere di applicare la legge in modo «costituzionalmente orientato», andrebbe ricordato che esiste un articolo 15 della Costituzione che consacra come «inviolabile» la libertà e segretezza di ogni forma di comunicazione. Certo, dice il capoverso di quell’articolo, anche quel diritto di libertà può essere limitato con un atto motivato dell’autorità giudiziaria. Ma chi è chiamato ad esercitare questo terribile potere dovrebbe farlo soltanto dopo un ponderato bilanciamento dei princìpi in gioco: da un lato il dovere di esercitare l’azione penale di fronte ad un reato; dall’altro, la libertà di comunicare. E non farebbe male a meditare quanto sia costato, in passato, nella storia italiana, il sacrificio di questa libertà. E quanto sia costato, ai nostri padri, riconquistarla.
Orbene: leggo che Nello Scavo sarebbe stato intercettato per scoprire la fonte da cui lui e un altro collega di “Avvenire” ricevevano un video che documentava le torture subite dai migranti in Libia. Il lettore si fermi un attimo su questa circostanza e si chieda: a questo punto siamo arrivati? È questo il prezzo che si deve pagare per avere una magistratura libera di condurre come vuole le indagini? Io penso di no.
Quando, una quarantina d’anni fa, entrai in magistratura ero stato sorpreso dalle parole di un anziano collega che - commentando i successi di un giudice istruttore che aveva sgominato i sequestri di persona in Piemonte - aveva detto: «Sì, certo; però lo ha fatto intercettando i telefoni di mezza Torino». Penso che quel magistrato avesse torto e riflettesse un antico e troppo rigido pregiudizio ideologico verso gli inquirenti. Ma il suo commento era l’espressione di una discussione profonda con i colleghi che la pensavano diversamente, che però aveva, alla base, una comune consapevolezza: l’importanza del bilanciamento fra diversi diritti. Si trattava di comprendere fino a che punto le indagini potevano spingersi nel limitare la segretezza delle comunicazioni di altre persone, probabilmente non coinvolte nei reati. Si trattava di trovare il punto di equilibrio. La posta in gioco era chiara a tutti. Di questo si discuteva e magari si litigava. Se penso alla facilità con cui oggi vengono chieste, autorizzate e lungamente prorogate intercettazioni per reati infinitamente meno gravi del sequestro di persona a scopo di estorsione, a volte provo nostalgia per le accese discussioni ideologiche di quarant’anni fa. Sento spesso dire: ma l’uso estensivo delle intercettazioni è utile.
Ma ci vogliamo ogni tanto ricordare che nella vita, e tanto più nel processo, non tutto quello che è utile è anche giusto? La risposta «è utile alle indagini» non può soddisfarci. Perché ciò che secondo la nostra Costituzione costituisce l’eccezione non può diventare la regola. C’è un limite oltre il quale - ci ha ricordato Giovanni Verde - «la nostra Repubblica (pensata come) democratica liberale» si trasforma in uno “Stato etico”. Questa è la strada, lastricata di buone intenzioni, a cui porta l’uso smodato delle intercettazioni; in particolare quelle col mezzo informatico del “trojan” che la riforma di due anni fa ha reso possibile per una gamma molto ampia di delitti, consentendone l’utilizzabilità anche per provare reati diversi da quelli per cui il giudice le ha autorizzate ed emersi nel corso degli ascolti (il cosiddetto utilizzo «a strascico»).
La stampa - come ha ricordato Paolini - ha le sue gravi responsabilità: per troppi anni ha solleticato il palato dei lettori con la pubblicazione di intercettazioni piene di pettegolezzi e particolari piccanti assolutamente irrilevanti per le indagini. Possiamo ben scriverlo dalle colonne di “Avvenire” che non ha mai voluto indulgere a questo andazzo. Ora anche i giornalisti cominciano a pagare il prezzo di questa deriva culturale. È ora di reagire. Se non ora, quando?