I passi per un «Civil Compact». Il terzo settore italiano un'eccellenza per l'Ue
Caro direttore,
il Terzo settore non è affatto una «mangiatoia», come lo ha definito l’attuale ministro dell’Interno, e non è neanche qualcosa che riguarda solo gli Stati membri, come lo considera l’attuale normativa dell’Unione Europea. Non è un settore di 'serie B', distinto dall’Economia con la 'E' maiuscola, come credono in molti. Il Terzo settore, che comprende il vasto mondo delle associazioni non profit e del volontariato, è un’eccellenza italiana che va difesa e promossa a livello nazionale, e che deve essere riconosciuta a livello europeo affinché diventi il punto di riferimento del 'Civil Compact' chiesto dalle colonne di questo giornale dal professor Stefano Zamagni. Più in generale è ora di smettere di considerare l’economia solo in termini di profitto e di dividendi agli azionisti.
A livello nazionale è scandalosa la lotta che sta facendo questo Governo populista contro le associazioni non profit e i volontari. Con l’accusa assurda di essere 'buonisti' si stanno mettendo alla berlina e si sta rendendo la vita più difficile a chi si occupa della cura dei poveri, dei disabili, degli anziani e degli ammalati. Persone che si impegnano in prima persona negli ospedali, nelle case di accoglienza e negli ospizi che meriterebbero dallo Stato, di cui spesso sopperiscono le mancanze, tutto il sostegno possibile, oltre a tutto il riconoscimento dovuto per il valore civile e insostituibile delle loro azioni.
Bisogna portare rapidamente a compimento la riforma del Terzo settore varata dai governi a guida Pd della XVII legislatura repubblicana per difendere e valorizzare le professionalità, spesso altamente qualificate, che lavorano nel non profit. Si tratta di proteggere l’impegno di oltre 6 milioni volontari e i posti di lavoro di più di 800 mila persone.
In secondo luogo, bisogna promuovere un 'Civil Compact' a livello europeo affinché le istituzioni comunitarie riconoscano le specificità delle associazioni non profit, che non possono essere considerate come le aziende votate unicamente al profitto quando si applicano le normative fiscali e sugli aiuti di Stato.
Non si parte da zero perché in questa legislatura insieme a un gruppo di eurodeputati di altri Paesi abbiamo portato avanti i lavori dell’Intergruppo parlamentare sull’economia sociale. Recentemente inoltre, grazie all’appoggio dei colleghi del Gruppo dei Socialisti e Democratici, sono riuscita a includere le imprese sociali nei destinatari del prossimo programma europeo per gli investimenti 'InvestEu', che succederà al Piano Juncker raddoppiandone i fondi.
È ora di riconoscere – come anche sulle pagine di 'Avvenire' si documenta e si chiede da tempo – che non può funzionare un’economia che ha come unici parametri il profitto, il Pil o il deficit. In questi anni c’è stata una crescente consapevolezza e numerosi studi che hanno allargato la nostra concezione di economia, dal superamento del parametro del Pil, che i governi Pd avevano iniziato a includere nei documenti di programmazione economica, alla responsabilità sociale di impresa, alla finanza a impatto sociale.
Ora, appunto, è necessario che a livello europeo tutte queste conoscenze e tutte le politiche comunitarie che già esistono in materia sociale, ma che devono essere rese visibili e potenziate, vengano incluse in una nuova Unione Sociale, con la stessa dignità e importanza dell’Unione Monetaria. Dall’indennità di disoccupazione europea al salario minimo, che non deve però sostituirsi alla contrattazione sindacale, alla parità di retribuzione tra uomini e donne è arrivato il momento di applicare concretamente i princìpi del Pilastro Sociale europeo, messi nero su bianco e sottoscritti da tutti i leader dell’Ue. Se c’è una cosa che abbiamo imparato nella crisi degli ultimi anni è che nessuna Unione Monetaria può sopravvivere se non è affiancata da una vera Unione Sociale.
Capodelegazione Pd al Parlamento europeo