L'intervento. Il carcere, un dispositivo chiuso in cui ci si abitua a tutto
«Un certo numero di detenuti, anche se si comportavano da duri durante la giornata, spesso si addormentavano piangendo, la sera. C’erano anche altri pianti e diversi da quelli indotti dalla paura e dalla solitudine. Erano più bassi e soffocati: la voce dell’angoscia. Pianti che possono cambiare il corso di una vita. Pianti che una volta sentiti non li cancelli più dalla memoria»: sono le parole tratte dal film Sleepers, uscito nelle sale cinematografiche nel 1996.
Purtroppo, sono espressioni che non appartengono più solo ad un capolavoro del cinema americano, ma diventano tremendamente attuali dopo i fatti sconvolgenti emersi lunedì scorso al carcere minorile Beccaria di Milano. Le violenze che affiorano dagli atti dell’inchiesta della Procura – per le quali sono stati arrestati ben tredici agenti di Polizia penitenziaria e che hanno portato alla sospensione di altri otto operatori della sicurezza – fanno male e mettono in ginocchio un intero sistema detentivo che da troppo tempo soffre per la carenza del personale educativo e della sicurezza. Da pochi mesi, la presenza stabile di un nuovo giovane direttore dell’Istituto Penitenziario Minorile milanese – Claudio Ferrari – ha contribuito a far emergere la grave situazione per lo più invisibile agli occhi di molti, compresi i miei: è imperdonabile, purtroppo, non avere compreso la gravità di quanto stava accadendo. Il carcere, dopo la chiusura dei manicomi, è l’ultima istituzione totale nel nostro Paese: la possibilità che questo sistema chiuso possa trasformarsi in un dispositivo totalitario, da oggi, non è più improbabile. Quello che fa più male è che i ragazzi coinvolti in queste terribili vicende non si siano confidati con nessuno, nemmeno con me.
Per quanto questo fatto si possa spiegare con le presunte intimidazioni operate dagli agenti, temo che le ragioni del loro silenzio siano ancora più gravi; in un dispositivo chiuso come il carcere ci si abitua a tutto e persino la violenza agita e subita diventa normale. L’assuefazione alla violenza è talmente radicata negli adolescenti da arrivare a pensare che sia “normale” subirla in carcere, per certi aspetti anche meritata: «Non ho mai avuto paura delle botte, ci sono cresciuto. Però da tantissimo tempo non avevo un’autorità in cui credere e quindi per quel comportamento non ero deluso o triste, non provavo vero dolore. Avevo la rabbia, ma ci ero abituato. Ma devo dire che quando hanno picchiato il ragazzo dell’altra cella mi sono sentito in colpa per non avere fatto niente e ci penso ancora spesso».
L’aggressività e la violenza che ispirano tante condotte adolescenziali hanno radici molto lontane ed affondano in un sistema educativo che ha confuso la parola «auctoritas» con la parola «potestas»: «In quegli ambienti devi saperti comportare. Devi portare rispetto soprattutto a chi ha il potere, altrimenti la paghi. È la stessa lezione che ho imparato in strada», dice un ragazzo passato dal carcere. L’autorità che «fa crescere» non è un esercizio dispotico di potere, ma un servizio generoso e coerente di cura e di educazione. Quando si esaspera il ricorso alla forza muscolare della Legge, si introduce nella testa dei ragazzi l’idea di «essere sbagliato» e di «essere un criminale che deve pagare»: «Io non mi fido di nessuno e nessuno si fida di me. Chi crede a un ragazzo pregiudicato? Le parole mie e dei miei amici rimanevano tra parentesi, non avevano molto valore, contavano le relazioni degli assistenti. E poi riuscivano a farti sentire che eri sbagliato tu. Arrivavi a pensare che avevano ragione a picchiarti perché eri una nullità».
Le regole sono regole, ma anche i reati sono reati: dove sta il confine tra il contenimento degli agiti aggressivi dei ragazzi e l’abuso di potere di chi ne dovrebbe garantire la tutela? Non intendo con questo colpevolizzare nessuno, tanto meno il Corpo di Polizia penitenziaria che, in tanti suoi rappresentanti, lavora in condizioni difficoltose con grande cura a custodia delle persone detenute. I casi in continuo aumento di suicidi in carcere ci portano, però, a riflettere in profondità sul senso della detenzione secondo il dettato costituzionale e ci obbligano a pensare il superamento di un modello detentivo che non regge più, soprattutto quando si rivolge a ragazzi con il volto ancora bambino. L’alternativa al carcere per un minorenne è la comunità, ma l’assenza di educatori e di strutture di accoglienza sono un fatto preoccupante: sembra che tutte le professioni di cura siano in calo oggi nell’interesse dei giovani. L’individualismo esasperato dei nostri giorni ci sta portando a perdere di vista «l’uomo che incappò nei briganti»: è sempre più difficile sulla strada incontrare nuovi samaritani, persone impegnate a servizio del prossimo.
Non mi resta che chiedere perdono ai ragazzi coinvolti in questa triste vicenda per non essere stato degno della loro fiducia e non avere saputo intercettare il loro dolore. Un pensiero, infine, anche agli agenti di Polizia penitenziaria coinvolti: senza giustificare gli atti criminosi se verranno accertati, provo un sentimento di com-passione anche per loro, forse troppo a lungo lasciati soli ad affrontare turni di servizio a volte doppi e di difficilissima gestione.
Cappellano dell’Istituto penale minorile “Cesare Beccaria” di Milano