Il direttore risponde. I corrotti sono sempre malviventi
Gentile direttore,
la dichiarazione dell’onorevole Berlusconi sulle «esigenze» delle imprese italiane che all’estero intendano conseguire o mantenere un business, suona – una volta che ne sia grattata l’esile scorza superficiale – esattamente in questi termini: le imprese che agiscono su mercati difficili (perché ad esempio non democratici) possono corrompere, perché altrimenti non riuscirebbero ad acquisire accesso a quei mercati. Possono farlo perché devono farlo, insomma, e non si può pretendere che si agisca diversamente. Oh giudici pazzi che pensate di disturbare la quiete del business transnazionale in salsa italiota! Non è la vicenda concreta di Finmeccanica che importa qui: ne deciderà la magistratura. Importa invece l’abito mentale che sta dietro le parole di un candidato alla guida di questo Paese. Bel biglietto da visita: una politica per le operazioni economiche internazionali frontalmente opposta a quella che le Nazioni Unite, l’Unione Europea, l’Ocse cercano di perseguire – e far perseguire a livello mondiale – con il consenso di tutti i Paesi democratici: non foss’altro perché la politica di contrasto alla corruzione è perseguita mediante convenzioni internazionali, fra l’altro sottoscritte e ratificate, sia pure con incertezze e ritardi, anche dall’Italia. Il nostro stesso ordinamento, d’altronde, prevede ormai che costituisce corruzione internazionale ogni indebito pagamento fatto a pubblici funzionari stranieri o internazionali per acquisire o mantenere un affare in operazioni economiche internazionali: non sono i giudici ma la legge (il diritto internazionale) che pretende un comportamento non corruttivo da parte delle imprese. Certamente, le scelte di strategia politica sono tutte legittime; basta che sia chiaro che, con queste prospettive e di questo passo, l’Italia si avvia non già ad essere un Paese democratico che investe in Paesi non democratici, ma a sua volta uno Stato canaglia: così, almeno, avremo un motivo comprensibile per non dover adempiere ad obblighi internazionali che ci pesano così tanto.
Alberto di Martino professore di diritto penale Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa