Cosa produce (e tradisce) l’escalation. I conti storti della guerra
Chi è nato nel secolo scorso e nel secolo scorso ha vissuto molti anni ricorda bene che, allora, il conflitto tra i «buoni» e l’«impero del male», cioè l’Unione Sovietica e i suoi satelliti e alleati, era condotto su basi di cautela e prudenza. I nostri genitori e non pochi di noi hanno anche vissuto con sgomento i carri armati russi che troncavano la Primavera di Praga, dove si era cercato di realizzare un “comunismo dal volto umano”, e prima ancora che invadevano l’Ungheria, ma la Nato decise di non muovere un dito. Tornarono i regimi filosovietici e, solo dopo anni di resistenza semi-clandestina, di fallimenti economici e sociali, il sistema del “comunismo realizzato” nel blocco della superpotenza nucleare sovietica implose dall’interno.
La caduta del muro e la fine dell’Urss avvenne così, non a seguito di una sconfitta militare imposta dagli occidentali. La risposta di oggi all’aggressione russa all’Ucraina è stata diversa, immediatamente muscolare e militare per evitare che i carri armati russi arrivassero a Kiev. Il governo e grandissima parte del popolo ucraino hanno dato subito il segnale di voler continuare a battersi con l’invasore, come stavano facendo già da otto anni, dando mano a tutte le risorse di cui disponevano, e noi siamo intervenuti a dargli manforte. I freni inibitori nel Terzo Millennio sono nel bene o nel male saltati e il timore dell’apocalisse nucleare, così forte ai nostri tempi, non ha impedito l’escalation della guerra.
Togliendo di mezzo la questione della paura di un’ulteriore escalation, toccherà un giorno fare il bilancio dei costi di questa scelta. A fine febbraio, dopo un anno di guerra, la Banca Mondiale stima costi economici per l’Ucraina tra i 600 e i 750 miliardi di dollari. Quanto ai costi umani, la stampa internazionale parla di almeno 300mila morti militari (tra soldati russi ed ucraini) e di 30mila civili, ma per quanto riguarda i soldati delle due parti ci sono stime ufficiose che moltiplicano almeno per due la cifra appena citata.
Non si contano i mutilati e i feriti. E nell’andirivieni incessante di questi terribili mesi si stima che un ucraino su 5 abbia abbandonato il proprio Paese diventando un rifugiato (circa 8 milioni). E non è ancora finita. Stanno ricevendo la chiamata alle armi anche i 17enni per essere addestrati in vista dell’ormai prossima maggiore età.
Non osiamo paragonare le sofferenze della popolazione colpita a quelle del resto del mondo, ma va pur detto che da questa guerra è nata l’esplosione dei prezzi del gas e una spinta inflattiva possente, con conseguente aumento di fragilità e povertà da noi, politiche monetarie restrittive negli Usa e nella Ue con un aumento dei tassi d’interesse che (come all’inizio degli anni 80 del Novecento) ha creato nei Paesi poveri ed emergenti altri disastri per l’aumento del costo reale del debito e la svalutazione delle valute locali contro il dollaro. Le difficoltà di approvvigionamento di grano tenero dall’Ucraina e le conseguenze della crisi macroeconomica seguita alla guerra hanno creato un grave deficit alimentare in Africa, spingendo a livelli di fame milioni di esseri umani in più.
Mettiamo per ora da parte questa valutazione che appartiene ormai alla storia perché la scelta è già stata fatta. Questa guerra, a torto o a ragione, dopo la mossa aggressiva decisa da Vladimir Putin abbiamo deciso di farla e di sostenerla, ma forse vale la pena di interrogarsi e cominciare a capire quando e in che modo può finire.
Pensiamo sul serio che sia possibile porre termine con una “vittoria” a una guerra contro una superpotenza nucleare? È, insomma, possibile sconfiggere una superpotenza nucleare sul campo? E continuiamo davvero ad aspettare Godot, cioè la caduta del presidente russo Putin, quando sappiamo che un autocrate non fa che rafforzarsi di fronte a una minaccia esterna?
Se, dunque, questa sconfitta e caduta non è possibile e se l’obiettivo resta comunque quello di una “vittoria sul campo” la guerra si trasforma in una guerra infinita? Ecco le domande. «Tutti sanno che prima o poi bisognerà parlarsi. Ma ogni parte crede che occorra raggiungere la fase negoziale in una condizione migliore di quella odierna, per mettere il nemico in una condizione di svantaggio. Così non si va da nessuna parte», ha detto recentemente Nikolaj Rybakov, presidente del partito liberale russo e grande oppositore di Putin. È un’amara constatazione che avete letto più volte su queste pagine.
E il momento di alzare il piede dall’acceleratore non sembra sia ancora arrivato se il ministro della difesa britannico annuncia pubblicamente l’invio in Ucraina di proiettili all’uranio impoverito, se tutto l’Occidente conferma l’invio di armi più sofisticate e se Putin torna a far minacciare un’escalation nucleare. I motivi a favore dell’intervento li conosciamo e ci vengono ripetuti continuamente e con essi i mali che sarebbero conseguiti a un non-intervento. Sarebbe bello in politica se si potesse scegliere tra un bene e un male, ma in realtà la scelta possibile è sempre il male minore tra due mali. Abbiamo scelto il minore tra due mali e lo stiamo facendo oggi? Quando a scuola c’era un litigio tra il più saggio e il più esagitato, il maestro rimproverava sempre il primo perché da lui si aspettava un di più di saggezza per evitare o far terminare la rissa.
La superiorità di noi occidentali, atlantici, democratici se c’è è fatta di ragion critica, di dibattito democratico, di capacità di metterci in discussione e di cercare le ragioni di cooperazione con tutti, soprattutto con la saggezza di chi sa che oggi i rapporti di forza sono profondamente cambiati e non siamo più al centro del mondo perché rappresentiamo (Usa ed Europa) circa un decimo della popolazione mondiale e come somma dei redditi pro capite in parità di potere d’acquisto del G7 siamo stati superati dai Brics, Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Se esiste una superiorità del nostro mondo democratico, forse è più che mai il momento, alla vigilia delle “magnifiche annunciate offensive di primavera”, di farci qualche domanda e di capire se stiamo facendo la cosa giusta aggiungendo guerra alla guerra. La riflessione critica e il dubbio e la decisione umana e ragionevole sono parte, in fondo, della storia di quella civiltà di cui siamo così orgogliosi.