Opinioni

Oman. Golfo (e oltre), si allarga il cerchio dell’insicurezza

Eleonora Ardemagni venerdì 14 giugno 2019

I fatti sono ancora da acclarare, le percezioni sono già forti: il nuovo attacco a due petroliere a est dello stretto di Hormuz, lo snodo strategico tra Golfo e Oceano Indiano da cui transita, ogni giorno, oltre il 20% del commercio petrolifero mondiale, evidenzia quanto le tensioni fra Iran, Arabia Saudita e Stati Uniti impattino sugli interessi economici globali. E la geopolitica irrompe nella vita quotidiana, con il prezzo del petrolio che cresce, ma finora non schizza, forse a testimonianza di quanto lo scontro 'a bassa intensità' nelle acque che separano Teheran da Riad stia diventando un pericoloso fenomeno di routine. Con l’incognita, costante, che un episodio (il prossimo?) segni una vera escalation militare, nonostante tutti gli attori coinvolti – ovvero iraniani, statunitensi e sauditi – smentiscano pubblicamente di cercare un conflitto. Gli attacchi alle due petroliere, avvenuti verso il tranquillo (finora) Mar Arabico, dunque oltre quello stretto di Hormuz punto caldo delle schermaglie regionali, segue di un mese esatto gli analoghi attacchi del 12 maggio.

Infatti, nella stessa area, quattro petroliere, tra cui due di proprietà dell’Arabia Saudita, furono sabotate al largo di Fujairah, l’unico emirato degli Emirati Arabi Uniti che si trova a est di Hormuz, riportando danni compatibili con l’utilizzo di mine marittime, come stabilito dall’inchiesta coordinata dagli Emirati. Nessuna rivendicazione: i sauditi puntarono il dito contro l’Iran e il suo network di milizie sciite, mentre gli emiratini, più cauti poiché desiderosi di preservare quell’immagine di sicurezza che viene loro globalmente riconosciuta, si limitarono ad affermare che «uno Stato» si celava dietro gli episodi di sabotaggio. Il ripetersi degli attacchi marittimi nella regione del Golfo stimola tre riflessioni.

Innanzitutto, la strategia della «massima pressione» degli Stati Uniti nei confronti dell’Iran, simboleggiata dall’uscita unilaterale di Trump dall’accordo sul nucleare iraniano (maggio 2018) e poi proseguita con sanzioni finalizzate all’asfissia economica di Teheran, non sta solo esacerbando il clima politico in Medio Oriente, ma sta anche mettendo a rischio, indirettamente, la sicurezza marittima nel quadrante. Infatti, gli iraniani sono bravissimi a giocare sul filo dell’asimmetria, con attacchi dissimulati che lasciano sempre margini di ambiguità: chiudere lo stretto di Hormuz, come spesso minacciato dalle autorità di Teheran, sarebbe per loro controproducente, poiché, oltre a esporli, danneggerebbe anche il loro export (così come l’alleato Iraq), mentre questi verosimili attacchi 'senza volto' mostrano quanto male l’Iran possa fare ai suoi rivali e, perciò, quanto non convenga, a Washington e a Riad, spingerlo ulteriormente nell’angolo.

L’invio della portaerei americana 'Abramo Lincoln' nel Mar Arabico, avvenuta un mese fa, non sembra fungere da deterrente. In secondo luogo, gli attacchi contengono un messaggio ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi. Nonostante i tanti investimenti infrastrutturali (porti) delle monarchie 'oltre Hormuz', proprio per aggirare il celebre 'collo di bottiglia', gli interessi strategici di Riad e Abu Dhabi possono essere comunque colpiti (e tra Mar Rosso e Stretto del Bab el-Mandeb ci pensano gli huthi, gli insorti yemeniti sostenuti dall’Iran e bombardati dai sauditi). Quindi, non esistono mari sicuri intorno alla Penisola Arabica: inoltre, i primi consumatori di petrolio saudita e iraniano sono le potenze asiatiche che sarebbero, in prospettiva, le più danneggiate dalla spirale di insicurezza marittima.

E poi c’è la moltiplicazione degli attacchi contro obiettivi civili: il 12 giugno un missile degli Houthi ha colpito un aeroporto civile nel sud dell’Arabia Saudita, causando ventisei feriti, il numero più alto finora, proprio il giorno prima dei nuovi episodi contro le petroliere. Per i sauditi, cresce il senso di accerchiamento, via terra (confine con Yemen), aria (missili) e mare. Per gli statunitensi, il segnale d’allarme che qualcosa non va nell’aggressiva strategia anti-Iran dovrebbe proprio suonare.