Il direttore risponde. Fine vita, parla (e conta) l’esperienza
F. P.
Lei, caro professore, torna con grande efficacia sui punti nodali della riflessione e del dibattito provocati dall’offensiva dei fautori dell’eutanasia. Avrei ben poco da aggiungere alle sue parole, ma una postilla in forma di domande – certo non rivolte a lei, ma a ben altri – mi pare essenziale. Possibile che così pochi tra i cosiddetti progressisti, tra gli autoproclamati difensori dei più deboli e svantaggiati, tra i nostri (ad altro proposito curiosissimi) colleghi giornalisti si pongano seriamente la domanda sul perché nelle sempre più vecchie società dell’Occidente sia stato imposto con questa intensità, e avvolto nello sgargiante mantello libertario del diritto all’autodeterminazione, il tema della «morte» a desiderio e a comando con il sigillo della legge? Possibile che nessuno noti che questo avviene con testa e sguardo lontani dalla realtà quotidiana della nostra gente? Possibile che continui questa sovrana indifferenza per la vera e grande attesa delle persone che si misurano con la malattia e la disabilità, che non chiedono affatto «libertà di morire», ma reclamano capacità di «cura» degne, civili, umane e pienamente umanizzanti? Gentile e caro professor P. – accetto di buon grado di non chiamarla per nome e cognome, rispettando i suoi pazienti – lei parla con esperienza e saggezza e non fa propaganda. E questo, oggi, è un impagabile merito.