Perché guardare a chi lascia l'Italia. E se l'emergenza nazionale fosse l'emigrazione?
Forse adesso che le cifre sono più che tonde, anche il quadro complessivo risulterà più chiaro. E con esso la necessità di focalizzare meglio la nostra attenzione, rivedere alcune priorità e riorientare parte delle politiche. Perché i numeri parlano da soli: nel nostro Paese risiedono 5,3 milioni di stranieri, mentre 6,1 milioni di italiani vivono all’estero. E se dal 2020 a oggi i residenti in Italia sono calati complessivamente di 652mila persone, nello stesso periodo sono aumentati dell’11,8% i nostri connazionali che preferiscono stare in un’altra nazione.
Il Rapporto Migrantes sugli italiani all’estero, presentato ieri, offre uno spaccato del nostro Paese su cui riflettere. Subito, di primo acchito, balza agli occhi la sproporzione tra l’attenzione – tanto mediatica quanto politica – che viene riservata all’immigrazione rispetto a quella che andrebbe assicurata all’emigrazione. La prima è ormai “la” questione politica su cui si giocano le elezioni, si polarizzano le posizioni, si strumentalizzano le vicende di cronaca in un senso o nell’altro, anziché più semplicemente ricercare soluzioni condivise e pragmatiche di governo del fenomeno. Della seconda - l’emigrazione degli italiani - quasi non si parla, salvo accorgersi con stupore che medici e infermieri vanno all’estero perché meglio pagati e con turni di lavoro meno massacranti; i neo-architetti e ingegneri preferiscono gli studi esteri rispetto alla trafila di praticantati sottopagati; i giovani scelgono imprese straniere in cui generalmente non vengono trattati da “ragazzi” di bottega, ma valorizzati per le competenze che possiedono, pagati il giusto.
Ancora, dell’immigrazione si tende a enfatizzare i problemi che pure esistono, si sottolineano con clamore gli “scontri” tra culture e religioni anche se sono, finora, piuttosto limitati e si finisce per attribuire a questo fenomeno la “radice” d’ogni male del Paese, dimenticando d’un tratto la criminalità nostrana, il nostro scarso impegno civico, la gigantesca evasione fiscale e tutto il resto. Dei migranti stranieri si “criminalizza” quasi la motivazione economica – anziché regolarizzare i flussi e organizzare meglio l’incontro tra domanda e offerta in Italia – e non ci si accorge come sia la stessa molla che spinge giovani e intere famiglie italiane a muoversi in Europa, verso gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l’Australia addirittura... Dove di norma c’è meno lavoro nero, regole più semplici, spesso condizioni sociali migliori, ma soprattutto maggiore dinamismo, apertura, prospettive, in una parola: speranza. Proprio lo stesso sentimento che spinge masse di persone, meno fortunate di noi, verso il nostro Paese.
Anche se in proporzioni minori e differenti rispetto al passato, siamo tornati insomma a essere un Paese di emigrazione. Da cui si parte e non sempre, non subito per lo meno, si ritorna. O per dire meglio siamo diventati un territorio da cui si parte e – contemporaneamente – in cui si arriva a seconda delle differenti convenienze e condizioni di partenza. Ma sempre più spesso con una perdita secca per l’Italia in termini sia numerici complessivi, sia soprattutto di preparazione del capitale umano e di mancato ritorno dell’investimento in formazione effettuato per i nostri figli. Per ogni laureato, infatti, lo Stato, cioè noi contribuenti, impegniamo 166mila euro come costo dell’intero ciclo di istruzione. Quando però un giovane va a lavorare, ad esempio in Germania, produce Pil, benessere e innovazione per quel Paese e non a favore della nostra comunità che pure ha contribuito a formarlo a un livello considerato d’eccellenza.
Prima di pensare che tutti i nostri problemi sbarchino a Lampedusa con i barchini, dunque, faremmo meglio a guardarci “dentro” per cercare di capire che cosa non funziona del nostro modello economico e sociale. Per comprendere perché – al di là del legittimo desiderio di confrontarsi con ambienti differenti e fare esperienze internazionali – l’Italia risulti sempre meno “attraente” per gli italiani. Gli errori e le responsabilità di questa situazione risalgono nel tempo e coinvolgono, seppure in proporzioni diverse, molte forze politiche. Fondamentale, però, sarebbe rendersi conto – insieme – che occorre subito cambiare l’approccio complessivo ai nodi di immigrazione ed emigrazione: favorendo al massimo l’integrazione di chi arriva e migliorando le condizioni di chi potrebbe e vorrebbe restare. Converrebbe a tutti e a noi italiani in Italia per primi.