Modelle disabili. Ellie, Sofia e la sindrome di Down: solo un modo di stare al mondo
Ha destato particolare attenzione la scelta da parte di un marchio americano della moda, che sinora aveva sempre aveva proposto esempi di bellezza statuaria e lontani dalla vita reale, di accogliere, come modella, la giovane portoricana venticinquenne Sofia Jirau, con la sindrome di Down. Nel 2020 Ellie Goldstein, una ragazza inglese di 18 anni con sindrome di Down, ha realizzato la sua aspirazione, riuscendo a lavorare per una grande griffe italiana come modella. L’esempio di Sofia, come quello di Ellie dimostra che è possibile mettere a frutto le proprie capacità, superando difficoltà non lievi. Quando ciò si realizzi nel rispetto della professionalità, al di fuori di schemi compassionevoli, emerge la multiformità della natura umana e ne viene valorizzato ogni aspetto.
Nell’agosto del 2014, rispondendo su Twitter a una donna che considerava un dilemma la scelta fra la prosecuzione della gravidanza e la sua interruzione, dopo aver saputo che il bambino sarebbe nato Down, il biologo Richard Dawkins scriveva che avrebbe fatto meglio ad abortire. Sarebbe stato infatti 'immorale', a suo avviso, metterlo al mondo. Lo scienziato assumeva invece un atteggiamento diverso rispetto alle diagnosi prenatali di autismo. Scriveva infatti che, in questo caso, non sarebbe stato opportuno abortire. Gli autistici, sosteneva, possono dare infatti importanti contributi, in quanto dimostrano, in genere, facoltà superiori alla norma. In seguito alle polemiche suscitate da queste affermazioni, decisamente eugenetiche, precisava poi che le sue opinioni riflettevano una tendenza generale, diffusa in Europa come in America, aggiungendo che, se la morale si fonda sul desiderio di accrescere la felicità, la scelta di far nascere un bambino Down potrebbe rivelarsi immorale dal punto di vista del bambino stesso. Si potevano comprendere, aggiungeva, le ragioni di chi ama persone con la sindrome di Down, ma bisognava riconoscere che questo punto di vista «è emotivo, e non logico».
Queste considerazioni privilegiano dunque, in modo discutibile, la dimensione cognitiva, nella convinzione che l’autismo coincida con elevate capacità analitiche. Non tengono conto però di aspetti diversi, che prendono forma nella vita relazionale e affettiva, in cui i soggetti con sindrome di Down possono esprimere il loro stare al mondo.
L’inclusione da parte dell’industria della moda di forme di bellezza che esulano dai modelli finora diffusi è certamente legata all’intenzione di estendere i prodotti a una fascia più ampia di consumatori. Ciò non impedisce di cogliere le opportunità che queste strategie offrono a chi, come Ellie e Sofia, aspiravano a lavorare in quel mondo. Quelle che sono state considerate 'diversità' e 'disabi-lità', con atteggiamenti talora compassionevoli, divengono, in un clima diverso, espressioni autonome e libere. Il fatto poi che ciò accada in un ambiente, come quello della moda, finora poco sensibile a questi problemi, assume un significato particolarmente rilevante.
Tutto ciò non deve tuttavia condurre a ignorare le difficoltà che accompagnano questi percorsi. Accettare che non vi sono possibilità precluse in partenza, non implica che tutte siano realizzabili in modo agevole e che tutti possano fare tutto. La consapevolezza critica delle proprie capacità è infatti fondamentale per progettare la propria esistenza. Potremmo dire, parafrasando Josè Ortega y Gasset, che ciascuno di noi è sé stesso e la propria circostanza. Le scelte di vita si definiscono dunque nell’incontro tra i singoli e i concreti contesti in cui si collocano. Come si può allora decidere, a priori, se la vita di un nascituro per il quale è stata diagnosticata la sindrome di Down sarà o meno degna di essere vissuta? Dawkins elabora delle argomentazioni che si muovono su un terreno logico e anche utilitaristico, mentre l’esistenza si svolge nell’ambito del vissuto, in cui la concretezza delle relazioni prevale sulle argomentazioni concettuali e sui calcoli.
Chissà cosa avrà pensato Dawkins della cerimonia inaugurale delle Paralimpiadi di Londra del 2012, quando, al centro dello Stadio Olimpico fu collocata una copia della scultura di Marc Quinn, Alison Lapper Pregnant, che rappresentava una donna focomelica incinta. Allison Lapper è una artista inglese, nata priva di braccia e gambe, che è riuscita a portare a termine i suoi studi, a vivere pienamente un’esperienza affettiva e a dare alla luce un figlio, purtroppo morto poi prematuramente. Quinn ha rappresentato Allison gravida, per esprimere la sua capacità di superare le difficoltà più estreme e di progettare il suo futuro. Si tratta di una scultura monumentale di tre metri e mezzo, in marmo di Carrara, esposta a Londra nel 2005, a Trafalgar Square, accanto alla statua dell’ammiraglio Nelson. Quinn coniuga un gusto neoclassico con una figura priva di arti, che sconvolge i canoni della classicità. Alison Lapper Pregnantevoca immagini che, come la Venere di Milo, sono giunte a noi mutile, ma non vuole essere una citazione. Vuole mostrare, piuttosto, come la bellezza possa svelarsi in ogni aspetto della condizione umana, illuminando tonalità emotive spesso nascoste o rimosse. I toni crudi di un’esistenza fortemente segnata, evidenti nell’opera di Marc Quinn, sono appena percepibili, oggi, nelle immagini del mondo della moda. Se per un verso è auspicabile che si affermi, anche in quel mondo, un concetto sempre più inclusivo di bellezza, dall’altro bisogna evitare che ciò accada nelle modalità della Società dello spettacolo.
La presenza di Ellie e Sofia nell’ambiente esclusivo della moda ha certamente contribuito a superare vari tabù che ruotano intorno alle cosiddette disabilità. Perché si possa condividere un terreno comune, è necessario che quel che indichiamo come disabilità sia percepito come uno stare al mondo in cui si esprimono peculiari modalità di relazione. La persona che ci sta di fronte non si identificherà allora con la sua mappa cromosomica, ma con l’unicità della sua vicenda esistenziale.
Filosofo