L'infinita e tragica crisi afgana. Battere le ambiguità
La falsa ambulanza imbottita di esplosivo usata ieri per seminare morte nel centro di Kabul è l’emblema di un terrorismo «malvagio», come ha sottolineato la stessa Croce Rossa, che non si ferma davanti a nulla nella sua ottusità distruttiva. La rivendicazione ha poi certificato che la responsabilità dell’attentato, uno dei più sanguinosi degli ultimi anni, è dei taleban, i ribelli islamici che, scacciati dal potere dall’invasione americana del 2001, non si rassegnano al nuovo assetto statale dell’Afghanistan. In un Paese martoriato e a lungo occupato, dove l’Occidente ha giocato una difficile partita in cui la posta in gioco era l’«esportazione della democrazia», la recente escalation di attacchi e di vittime potrebbe dare una (superficiale) impressione che tutto sia stato vano.
Che le guerre non portino mai nulla di buono è una constatazione indiscutibile, che una nazione lacerata da secolari rivalità tribali e religiose (legate a differenti interpretazioni dell’islam) non possa trovare una sua strada nella modernità in pochi anni è un fatto altrettanto certo. Quando i taleban – educati nelle madrasse del Pakistan, sovvenzionati dai sauditi e indirettamente aiutati dagli americani contro Mosca – presero il potere dopo il ritiro degli occupanti sovietici, a metà degli anni Novanta, imposero un regime illiberale ispirato alla più ferrea sharia, che vietava persino televisione, cinema, musica e le altre arti, oltre a segregare le donne, impedendo per loro l’istruzione oltre i dieci anni di età.
L’avere dato ospitalità e basi ad al-Qaeda, che dall’Afghanistan progettò l’attacco alle Torri Gemelle di New York, fu ciò che provocò l’intervento Usa. Senza quell’evento scatenante, è probabile che il Paese sarebbe rimasto chiuso e isolato ancora per un certo periodo. Ma la storia non si fa con i "se". Le missioni internazionali seguenti alla caduta del regime hanno cercato di ripristinare sicurezza e vivibilità puntellando il governo insediato da Washington. Anche l’Italia continua a fornire un contingente, che presto passerà da 900 a 700 unità. Abbiamo visto cadere negli anni oltre 50 nostri uomini, impegnati in azioni che pur restando militari hanno contribuito alla parziale ricostruzione materiale e civile, come ci è stato spesso riconosciuto.
Molto però non ha funzionato nello sforzo di rimettere l’Afghanistan sulla via dello sviluppo e della pacificazione. Ambiguità ed esitazioni, scelte inappropriate e l’inevitabile marchio sugli "invasori stranieri" non hanno permesso di fare dell’autorità centrale un nucleo autorevole ed espansivo. D’altra parte, non si può non rilevare come la guerra civile interna sia una dinamica cui è impensabile opporre solo altre armi, chiunque le impugni.
La soluzione di un negoziato con i taleban moderati che, dopo un’iniziale e giustificata ripulsa, era sembrata praticabile si è presto arenata, anche per il ruolo non cristallino del Pakistan, vicino ingombrante e poco interessato a un equilibrio che non vada a proprio vantaggio.
Oggi i taleban, in competizione con una crescente presenza del Daesh, hanno potuto riavvicinarsi alla capitale e ai palazzi del potere a motivo della minore pressione delle forze governative, dimostratesi incapaci di diventare un esercito affidabile ed efficiente, malgrado il grande sforzo profuso in addestramento da parte della coalizione Nato. La maggioranza degli afghani non vuole tornare al regno del mullah Omar, ma molti probabilmente guardano con fastidio alla presenza di truppe americane ed europee (a volte responsabili di errori ed eccessi nelle lotta alla guerriglia) e sperano che un Afghanistan libero da interferenze possa trovare una propria stabilità.
Quello che si può, purtroppo, prevedere a breve termine è che gli attentati e le vittime aumentino. Nel 2016, i civili uccisi sono stati circa 3.500, molti i bambini, un quarto dovuti ai soldati regolari afghani, che nello stesso periodo hanno contato settemila caduti in combattimento (numeri inaccettabili, ma si pensi che l’anno scorso le vittime in Messico della guerra narcotrafficanti-Stato sono state quasi 30mila). Dopo l’inizio del disimpegno militare voluto da Obama, anche Trump considera l’Afghanistan un teatro minore e nessuno degli alleati sarebbe disposto a prendere il ruolo degli Stati Uniti. Non si tratta, però, di chiedersi nuovamente se "morire per Kabul". Di fronte al terrorismo che odia e uccide, pur lontano dai nostri confini, non è possibile voltarsi semplicemente dall’altra parte. L’Afghanistan, dove siamo presenti sul campo, dovrebbe quindi tornare stabilmente in cima all’agenda internazionale delle diplomazie, con un forte rilancio dei colloqui per la riconciliazione, nella dolorosa consapevolezza che aiutare chi, in gran misura, non vuole collaborare è impresa titanica. Battere le ambiguità, anche di alleati e finti benintenzionati, dovrà diventare il primo dovere.