Verso il voto di marzo. Così le libertà fondamentali sono sotto attacco in Egitto
Fra il 26 e il 28 marzo prossimi, gli elettori egiziani sceglieranno a chi affidare la presidenza della Repubblica, ora nelle mani di Abdel Fattah al-Sisi. L’ex militare di carriera (numero uno delle Forze armate e ministro della Difesa per volere del presidente islamista Mohammed Morsi, che poi lui stesso ha destituito nel luglio del 2013) ha rotto gli indugi venerdì 19 gennaio, candidandosi al suo secondo mandato. Al-Sisi, in diretta tv, ha invitato i propri concittadini a recarsi alle urne in massa, aggiungendo: «Votate per chi volete».
Un esercizio di pura retorica, vista l’assenza di concorrenti in grado di dare alla competizione una parvenza di regolarità. Persino la candidatura di Sami Hafez Anan, figura di spicco delle Forze armate fra il 2005 e il 2012, è stata stroncata sul nascere. Anan si è ritirato l’altro giorno, subito dopo essere stato arrestato con l’accusa di falsificazione di verbali e candidatura «senza autorizzazione». Rischia di essere processato anche per «provocazione contro le Forze armate» allo scopo di «generare lo scontro tra esse e il popolo egiziano».
E ieri anche l’avvocato e attivista peri diritti umani Khaled Ali, l’ultimo potenziale sfidante di Al-Sisi, ha gettato la spugna. L’impressione diffusa, dunque, è che il voto egiziano non recherà con sé nessuna sorpresa. Sullo sfondo, uno scenario a tinte sempre più fosche per le libertà fondamentali di 90 milioni di cittadini, musulmani e cristiani.
È «un picco persecutorio senza precedenti» quello di cui sono protagonisti i cristiani d’Egitto. Ad affermarlo è il rapporto annuale pubblicato dalla piattaforma Open Doors lo scorso 10 gennaio. L’ong cristiana definisce il 2017 un anno orribile per la minoranza, segnato da 200 rapimenti e 128 omicidi. La fiammata di intolleranza è attribuita in parte alla fuga di jihadisti da Siria e Iraq, e al loro 'travaso' verso l’Egitto, e in parte all’ignavia della classe dirigente egiziana. Anche una bozza di risoluzione sull’allarme «per gli attacchi contro i cristiani copti in Egitto», sottoposta lo scorso 21 dicembre alla discussione del Congresso statunitense da sei parlamentari Usa, sostiene grosso modo lo stesso: la presidenza al-Sisi ha fallito sia nel proteggere la minoranza religiosa sia nel ricompattare la società. In merito, la Commissione per gli Affari esteri del Parlamento egiziano ha redatto un testo lungo 6 pagine che confuta ogni accusa.
Ma il report di Open Doors non fa che aggiungere benzina alle fiamme della polemica internazionale: esso riferisce le parole di Michael Jones, nome di fantasia utilizzato per proteggere il prelato di una chiesa evangelica del Cairo, intervistato dalla testata giornalistica 'Christian Today'. Jones descrive le angherie subite dai cristiani nelle comunità rurali, là dove «il controllo non è nelle mani del presidente al-Sisi, ma di autorità locali fanatiche». Intimidazioni e discriminazioni sono a tal punto in crescita da aver provocato l’inclusione dell’Egitto nella 'top 8' delle nazioni il cui livello di violenza anti-cristiana è peggiorato di più, negli ultimi 12 mesi. I fattori presi in considerazione vanno dalle restrizioni delle libertà personali e familiari, alla mancanza di libertà nel professare il proprio credo o nel convertirsi, di lavorare e studiare senza essere offesi o perseguitati. Il 2017, per la cronaca, è stato l’anno di due stragi efferate ai danni della comunità cristiana: 49 vittime nella domenica delle Palme, 29 un mese dopo, nel governatorato di Minia. I cristiani d’Egitto, nonostante questo, non si nascondono. Ma se anche volessero farlo, in Egitto il credo praticato è ancora riportato sulla carta d’identità, a rimarcare il solco esistente fra maggioranza e minoranza.
Religione e morale sono diventati il ring privilegiato di un regolamento di conti fra potere e dissenso. I legislatori egiziani sono all’opera su di una bozza di normativa che riconosca come reato l’ateismo. La blasfemia è già un crimine in Egitto, Paese in cui con l’accusa di aver insultato o diffamato la religione – musulmana sunnita, praticata dalla maggioranza della popolazione – ogni anno vengono arrestati centinaia di cittadini. Una nota di spiegazione al disegno di legge anti-ateismo, nebuloso, è in fase di redazione: in molti si chiedono quali strumenti il legislatore autorizzerà per la determinazione del crimine, visto che il presunto colpevole potrà essere perseguito anche se non si è mai espresso in pubblico sull’argomento. Eppure, l’armonia di vedute fra la commissione parlamentare sulla Religione e i vertici della moschea universitaria di al-Azhar, che hanno espresso pieno sostegno all’iniziativa, è indicativa del clima creatosi nel Paese, con particolare accelerazione sotto la presidenza al-Sisi.
Secondo la normativa in vigore in materia di blasfemia – che fa parte del Codice penale dal 1982 – una pena detentiva fino a cinque anni può essere comminata a un cittadino riconosciuto colpevole di «promuovere, attraverso discorsi orali, scritti o diffusi mediante qualsiasi altro mezzo, idee estremiste con l’obiettivo di diffondere la discordia oppure di sminuire o denigrare una delle fedi monoteistiche o una delle loro derivazioni, o di ledere l’unità nazionale». Su questa base normativa, sufficientemente elastica da essere impiegata contro numerose forme di dissenso politico, sociale o religioso, sta dunque per fiorire un nuovo strumento repressivo, cui la presidenza egiziana ha iniziato a pensare fin dal proprio insediamento, nel 2014.
Poco dopo l’elezione del raìs Abdel Fattah al-Sisi, infatti, il nuovo esecutivo annunciò una piattaforma giuridica per «far fronte ed eliminare» l’ateismo, ritenuto una delle maggiori minacce per l’Egitto. I mezzi di informazione filo-governo si adeguano, segnalando casi che rientrano nel 'panico morale' denunciato dai conservatori, fautori dell’ordine ad ogni costo.
«Utilizzare la violenza e la repressione per erodere lo stato di diritto e decimare l’opposizione politica è il traguardo principale raggiunto da al-Sisi», è il commento di Sarah Leah Whitson, direttrice di Human Rights Watch per il Medio Oriente. L’ong ha pubblicato la propria relazione sui diritti umani nel mondo nel 2017 all’inizio di gennaio. L’Egitto non vi 'sfigura', fianco a fianco con altri regimi totalitari. «L’Agenzia nazionale per la sicurezza del ministero degli Interni - si legge - che opera nella quasi totale impunità, è stata responsabile di alcuni dei più flagranti abusi del 2017, incluso il diffuso e sistematico uso della tortura per estorcere confessioni». Sparizioni di detenuti, omicidi extra-giudiziari, processi militari applicati ai civili (15mila in tre anni, compresi bambini) allungano la lista degli orrori egiziani.
E al lettore italiano tali efferatezze documentate e circostanziate non possono non ricordare la sorte tragica e insensata toccata, due anni fa, al ricercatore friulano Giulio Regeni. Un delitto ancora senza colpevoli, ma con numerosi sospetti. Il medesimo destino violento ha travolto migliaia e migliaia fra attivisti, blogger, giornalisti, studenti, avvocati, professori, operai, venditori ambulanti, semplici cittadini ritenuti pericolosi per il sistema. Altri, invece, forse troppo in vista per essere fatti sparire, stanno subendo un altro trattamento: l’'omicidio della personalità' attraverso campagne diffamatorie, incentrate sulla presunta amoralità dei loro comportamenti.
È questo lo 'strumento' impiegato dal regime per neutralizzare le voci critiche che godono di prestigio e protezione internazionale, denuncia la giornalista e attivista politica Esraa Abdel Fattah, candidata al premio Nobel per la pace nel 2011 per il suo ruolo nelle manifestazioni di piazza Tahrir. Appunto una voce contro, che rischia ogni giorno un po’ di più.