Rompere e poi?. Dopo la Brexit, il pasticcio catalano
Il gran pasticcio iberico, con il referendum di domenica sull’indipendenza della Catalogna vietato da Madrid ma difeso da Barcellona, procede spedito verso il compimento allo stesso modo in cui si realizzò quel gran pasticcio europeo passato alla storia con il nome di Brexit. Intanto, si è arrivati alla svolta fatale, preceduta alla vigilia da spari, confronti di piazza e interventi delle forze dell’ordine che sanno di campagna militare, con l’identica miscela di presunzione e noncuranza. Chi avrebbe pensato che Nigel Farage e Boris Johnson avrebbero davvero portato il Regno Unito fuori dalla Ue? Eppure ci sono riusciti, e le manovre del premier David Cameron sono andate a fracassarsi contro il muro dei "leave".
Qualcosa di simile è successo al premier spagnolo Mariano Rajoy, che ha guardato con sovrana indifferenza alla crescita del sentimento separatista in Catalogna, accelerata dalla sconfessione (nel 2012) degli accordi siglati nel 2006, e approvati dai catalani, per concedere alla regione una maggiore autonomia. E ora, sorpreso, prova a risolvere la crisi mobilitando la Guardia Civil, cioè gettando altra benzina sul fuoco.
Le analogie con la Brexit non si fermano qui. In punta di diritto internazionale, la Catalogna non ha molti argomenti. Non è sottoposta a occupazione coloniale o straniera, quindi il principio dell’autodeterminazione dei popoli non può essere invocato. I catalani pro-indipendenza si rifanno alla tradizione di indipendenza e identità nazionale che li accompagnò per molti secoli, dall’epoca carolingia fino al 1714, quando Filippo IV vinse la guerra di successione e si affrettò ad abrogare (1716) ogni autonomia locale con i Decretos de Nueva Planta, con cui tra l’altro il castigliano veniva imposto come lingua ufficiale.
Se però grattiamo appena la superficie scopriamo un’altra somiglianza con la Brexit. Gli inglesi, quando votarono per andarsene, godevano dell’economia più dinamica della Ue ed erano convinti che avrebbero avuto vantaggi economici dall’addio a Bruxelles e alle pastoie dell’Unione Europea. I catalani pensano a "Madrid ladrona" e credono fermamente che, appena smetteranno di versare parte delle loro tasse al Governo centrale, entreranno in una nuova età dell’oro. Ne sono convinti perché la Catalogna, con solo il 16% della popolazione nazionale, controlla il 23% dell’apparato industriale e produce il 25% delle esportazioni spagnole. In altre parole, il referendum è concepito perché chi sta bene possa stare ancora meglio.
Ma è davvero tutto così semplice? Per nulla. Perché la Catalogna, governata ormai da molti anni da maggioranze eterogenee che usano lo spirito indipendentista come collante elettorale, ha accumulato un debito pubblico che è di circa il 50% più alto di quello che in media si registra nelle altre 16 Comunità autonome del Paese. Questo perché dal 2008, cioè da quando è partita la crisi globale e anche la Spagna ha finito di essere il Paese del boom, i governi catalani hanno continuato a spendere anche se la raccolta fiscale, con la contrazione dell’economia, si riduceva.
Non a caso, malignano molti a Madrid, la fiaccola dell’indipendentismo è tenuta alta, in Catalogna, soprattutto da coloro che vivono di spesa pubblica regionale: intellettuali, professori, dipendenti pubblici e così via. Che succederà al bilancio catalano il giorno in cui la Comunità, diventata Stato, dovesse spendere ancor più per garantire i servizi oggi coperti dall’amministrazione nazionale? Ancora una volta torna in mente la Brexit. Ue e Regno Unito trattano sull’uscita, ma nessuno sa che cosa accadrà tra un paio d’anni, finite le trattative, quando i due si diranno davvero addio. Allo stesso modo, la Spagna non sa che cosa potrebbe succedere il giorno in cui il potenziale industriale e finanziario della Catalogna cominciasse a girare per conto proprio, e la Catalogna non ha la più pallida idea di che cosa vorrà dirsi amministrarsi e gestirsi da sola. L’ultima analogia: che cosa pensa davvero la gente o, meglio, il popolo così accanitamente chiamato in causa? Siamo proprio convinti che i cittadini della Catalogna siano tutti indipendentisti?
Domenica, se si voterà, il 'leave' catalano con ogni probabilità vincerà a mani basse (QUI I RISULTATI DEL REFERENDUM), perché andranno a esprimersi soprattutto i militanti. Ma nel luglio scorso un sondaggio sul tema rilevò che il 49,4% dei catalani era contrario all’indipendenza mentre il 41,1% la sosteneva, con un 9,5% di indecisi. E nel novembre 2014, un referendum sugli stessi temi di quello attuale, anche se ovviamente assai meno 'carico', certificò il 'sì' all’indipendenza per sull’80% delle schede. Aveva votato, però, solo il 37% degli aventi diritto, perché i sostenitori del 'no' avevano scelto la strada dei boicottaggio. Avanti così, quindi, senza sapere bene come o perché. In attesa che il fumo delle illusioni venga disperso dal vento della realtà e sia Madrid sia Barcellona ritrovino la pratica della buona politica, senza la quale né le aspettative dei popoli né le ragioni degli Stati possono trovare la giusta soddisfazione.