Opinioni

Caselli: «Irriducibilità su Andreotti? Parla il processo». Sì, e molto altro

Marco Tarquinio venerdì 18 gennaio 2019

Gentile direttore,

in un interessante articolo di Roberto Rotondo, pubblicato da “Avvenire” in occasione del centesimo anniversario della nascita di Giulio Andreotti, si trova scritto fra l’altro che per «le accuse che gli furono mosse in vita [...] ci sono state le sentenze di assoluzione della Cassazione , anche se alcuni “ irriducibili” ancora oggi si ostinano a non riconoscerle come tali». Mi sento chiamato in causa, perché sono certamente uno di questi “irriducibili”: Anzi, forse il più irriducibile quanto al processo per mafia di Palermo. Insieme al collega Guido Lo Forte ho persino scritto un libro (edito da Laterza) intitolato – guarda un po’ che presunzione! – “La verità sul processo Andreotti”. L’incontrovertibile verità processuale è questa: la Cassazione ( 28 dicembre 2004) ha confermato in via definitiva e irreversibile la sentenza della Corte d’Appello (2 maggio 2003). Si può arzigogolare quanto si vuole, ma ormai “è cassazione”, come si diceva una volta per indicare una cosa di cui non si può dubitare, quello che sta scritto nel dispositivo della sentenza di appello. E cioè che fino alla primavera del 1980 l’imputato ha commesso (sic) il reato di associazione a delinquere con Cosa nostra. Reato prescritto a causa del tempo decorso dalla sua commissione, ma pur sempre commesso: come dimostra la motivazione (si può trovare su internet) fondata su prove concrete e sicure. Soltanto dopo il 1980 si parla di assoluzione (sia pure in forma di fatto dubitativa), ma prima di questa data neanche un po’. Per cui sostenere che un imputato è stato “assolto per aver commesso il reato” è non solo uno strafalcione giuridico: prima di tutto è un’offesa alla logica e al buon senso. E gli ostinati “irriducibili” andrebbero quanto meno... capiti. Si celebri liberamente tutto quel che si vuole, si rispettino le persone sempre e comunque. Ci mancherebbe. Ma attenzione in certi casi alle modalità e all’abuso di sedi istituzionali. Per i cristiani (lo sono anch’io, pur con mille limiti) c’è poi un problema di coerenza cui provo ad accennare con la prudenza necessaria. C’erano una volta componenti della Chiesa che sottovalutavano la realtà della mafia e ci convivevano, rendendo debole la stessa parola profetica della Chiesa: giustamente severa nei confronti dell’ideologia totalitaria, ma spesso tollerante verso la sacralità atea della mafia. Un cambio di passo decisivo si è avuto (21 giugno 2014) quando papa Francesco ha proclamato che i mafiosi, «coloro che nella vita seguono questa strada di male, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!». Parole forti, che al di là della condanna ecclesiastica, rivolgono ai cristiani l’invito ad agire con coraggio. Perché senza coraggio non c’è freschezza del Vangelo, non c’è speranza di slegare i bavagli che per troppo tempo hanno reso forti i mafiosi. Dunque un invito a essere rigorosi sempre, contro ogni manifestazione del potere criminale mafioso: sia contro i mafiosi “di strada”, sia contro i “colletti bianchi” collusi coi mafiosi. Un problema, appunto, di coerenza. Senza coerenza, lo scatto d’anima e di responsabilità sollecitato da papa Francesco rischia di affievolirsi. Creando disparità di trattamento e precedenti ambigui che in futuro (si parva licet...) potrebbero inceppare le campagne contro i parroci che nel loro paese consentono che la statua portata in processione sosti per l’inchino davanti alla casa del maggiorente locale in odore di mafia. Infine, nessun cristiano dovrebbe dimenticare il martirio di Piersanti Mattarella, un democratico cristiano onesto e coraggioso trucidato dalla mafia con la quale non voleva avere nulla a che fare. Ma per “celebrare” Andreotti occorre rimuovere, in quanto “scomodi”, i due incontri in Sicilia che egli ebbe con il boss Stefano Bontate, per discutere di «vicende particolarmente delicate e di fatti criminali gravissimi» appunto relativi all’omicidio Mattarella. Senza mai «denunziare [gli] elementi utili a far luce [sull’omicidio] di cui era venuto a conoscenza in ragione di diretti contatti con i mafiosi». Anche qui un problema di coerenza. E non di poco conto.

Gian Carlo Caselli


Accolgo con attenzione e rispetto, gentile dottor Caselli, le sue argomentazioni, i dati e le date che richiama. E mi scuote di nuovo, ma non mi sorprende affatto, che con tanta fermezza lei confermi le convinzioni maturate nell’esercizio del suo ufficio di Procuratore della Repubblica a Palermo e nella conduzione di un processo che si può ben definire “storico”. Giulio Andreotti al termine di quel processo ottenne la sentenza di Cassazione che lei richiama e che, a distanza di anni, continua a colpire anche me per la sua complessità tra assoluzione e prescrizione, che richiama inevitabilmente la complessità della storia politica e della straordinaria militanza pubblica di quest’uomo di Stato. Una complessità che si è manifestata anche con la grintosa docilità dell’imputato Andreotti. E la sua condizione di senatore a vita diede speciale forza – negli anni della cosiddetta Seconda Repubblica – alla dimostrazione di senso delle Istituzioni con cui si assoggettò alla legge e a un lungo e grave percorso giudiziario. Una complessità sulla quale ha gettato una luce forte e inattesa la pubblicazione, nel 2014, di una piccola ma impressionante serie di lettere dell’anima ai familiari da aprire «post-mortem». Rimando all’editoriale che scrissi in quell’occasione (Avvenire, 4 maggio 2014 tinyurl.com/lettere-di-andreotti) e ne cito il passaggio che ne spiega il titolo – «La verità interiore » – e ne riassume l’intenzione: «Si dice spesso, a proposito di personaggi grandi e controversi, che ci sono verità storiche e verità processuali che li riguardano. Di Giulio Andreotti questo è stato detto, pro e contro, più volte. C’è però anche una verità interiore, quella che si riserva a se stessi e, a volte, alle persone più care. Una verità che quasi mai emerge. Stavolta è avvenuto. Ed è una verità buona e utile. Non una medaglia, né un’assoluzione. Ma qualcosa di più profondo. Una verità scomoda, come tutte le verità». E con la verità – siamo perfettamente d’accordo, gentile dottor Caselli – tutti noi dobbiamo fare i conti con chiarezza. La stessa chiarezza che – ne sono convinto – ci farà sconfiggere la mafia e il terrorismo e l’odio politico restando umani. E cristiani. Anzi essendolo con più umiltà, più passione e tenaci ragioni.