Case e nidi: i veri nodi. Regole costituzionali, doveri politici
Non ha senso dividere italiani e stranieri, vecchi e nuovi abitanti del Bel Paese, quando ci sono in gioco diritti fondamentali come quello alla casa e a un’infanzia serena. In soli due giorni la Corte costituzionale, bocciando prima la legge della Liguria sulle case popolari e poi quella del Veneto sull’accesso agli asili nido, ha ristabilito non solo la centralità dei princìpi scritti nella nostra Carta fondamentale, ma ha di fatto anche accelerato un confronto già aperto da tempo dentro la società italiana.
All’inizio di una legislatura già caratterizzata da slogan e proposte roboanti in materia di welfare e di pubblica sicurezza, vale la pena ricordare che, per disinnescare tensioni e conflitti sociali già esplosi in alcuni casi (anche nell’urna elettorale) il principio di realtà e il buon senso, oltre al rispetto della legge, possono essere validi alleati anche del prossimo Governo. In questo senso, non c’è molto da cambiare o da riscrivere, semmai occorre passare dalla teoria alla (buona) pratica. Innanzitutto a livello territoriale.
Soffiare sul fuoco non serve, lo dicono i numeri. Prendiamo il caso degli alloggi di proprietà pubblica e del tanto surriscaldato dibattito sulle graduatorie tra famiglie autoctone e famiglie di immigrati.
Oggi, a fronte di un 45% di cittadini non italiani che rivendica il diritto a una casa, solo il 10% è già effettivamente presente in un’abitazione di proprietà di un ente pubblico. Non c’è nessuna occupazione in corso, nessuna concorrenza sleale, nessun sovvertimento sociale in atto. Quello delle assegnazioni e, di converso, delle liste d’attesa sembra essere semmai un “non problema” se si considera che, in una città come Milano, a fronte di graduatorie con diverse migliaia di nuclei familiari in aspettativa, sono solo poche centinaia gli alloggi a disposizione.
L’abisso tra domanda (elevatissima) e offerta (molto bassa) è dunque la vera questione da affrontare e riguarda tutti, senza distinzioni. In questo senso istigare, con provvedimenti regionali, “guerre tra poveri” sembra servire a molto poco ai chi ha bisogno di un tetto e assai di più a chi non dà risposte giuste e adeguate ai bisogni abitativi di tante famiglie.
Lo stesso vale per gli asili nido: in un passaggio della sua sentenza di ieri, la Consulta sostiene tra l’altro che il provvedimento del Veneto «crea le condizioni per privare del tutto una categoria di bambini del servizio educativo dell’asilo nido». È proprio questo il rischio, ancora una volta confermato dai dati reali: quello di dimenticarsi del tutto di un universo, quello dei minori stranieri, che già adesso, nella fascia tra gli 0 e i 6 anni, fa sempre più fatica a frequentare nidi e materne. Molti figli dei migranti arrivano in prima elementare senza aver frequentato i luoghi di socializzazione tradizionali: anche in questo caso, è questo il nodo da affrontare, non altri.
Come si vede, di decisione in decisione (e potremmo citare altri casi recenti su cui la Corte costituzionale si è espressa negli stessi termini, dal trasporto pubblico ai servizi per la famiglia) il nostro sistema di welfare, nella sua accezione universalistica, è stato in toto riconfermato. Tutto questo non basta, però. Serve sempre di più quel soprassalto di ragionevolezza cui ci richiama ancora una volta la nostra Costituzione e di cui si sono fatti interpreti, anche in tempi recenti, molti protagonisti delle nostre comunità, dai sindaci al Terzo settore fino alle istituzioni nazionali, in protocolli firmati in ambito ministeriale. Pensate alla regola del “tre per mille”, più volte evocata nei protocolli tra Comuni e autorità deputate all’ordine pubblico: tre migranti accolti ogni mille abitanti.
Può davvero far paura a qualcuno sapere che in un centro di 10mila abitanti, si sono aperte le porte (magari in uno Sprar) a 30 profughi accolti nell’attesa che presentino domande d’asilo? Può originare timori, se ad occuparsene sono primi cittadini autorevoli, cooperative sociali di provata onestà e volontari riconosciuti? La risposta è scontata, eppure solo in un caso su tre tutto ciò avviene in Italia. Perché è più facile agitare artificialmente i fantasmi dell’invasione, sovvertendo le cifre, ed evocare irresponsabilmente l’incubo francese delle banlieue, piuttosto che prendersi responsabilità condivise e muoversi in prima persona. La logica dei piccoli passi sicuri è quanto mai necessaria, in questa fase, per evitare di fare i danni che, sui terreni dell’integrazione della convivenza civile, rischierebbe invece di fare chiunque si muovesse come un elefante in cristalleria.