L'inchiesta. Le torture a Trapani e il carcere, quel buco nero che invoca umanità
«A volte i detenuti venivano fatti spogliare, investiti da lanci d’acqua mista a urina» e veniva «praticata violenza quasi di gruppo, gratuita e inconcepibile... ». È un esercizio davvero doloroso, quello di ascoltare la ricostruzione del procuratore di Trapani Gabriele Paci, coordinatore dell’inchiesta nata nel 2021 e che ieri ha portato all’emissione di 25 misure cautelari e interdittive a carico di altrettanti agenti penitenziari del carcere Pietro Cerulli. Dentro quelle dichiarazioni, dal buio delle celle arrivano a noi echi degli abissi d’umiliazione, sofferenza e angoscia inflitti a decine di esseri umani. Sì, esseri umani, perché l’aver ricevuto una condanna (o l’essere in attesa di giudizio) per un reato compiuto, anche grave, non può e non deve mai consentire ad altri di cancellare, offendere, calpestare l’umanità del recluso.
«Le pene», è scolpito nella Costituzione, «non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». In una nazione con la nostra tradizione giuridica, parrebbe superfluo ribadirlo. E invece no. Perché – ferma restando la presunzione di innocenza per gli indagati di Trapani, che potranno difendersi in sede giudiziaria – lo spaccato di prevaricazioni che tracima dall’inchiesta ha fatto ipotizzare al gip per alcune azioni perfino, in concorso, il reato di tortura (che per inciso, ancora qualcuno chiede beffardamente di abolire o modificare, come se fosse un retaggio di epoche antiche e non un’evidenza della cronaca recente). E quello trapanese non è l’unico caso: proprio in questi giorni, in Campania si sta concludendo il processo per le presunte torture di quattro anni fa su detenuti di Santa Maria Capua Vetere.
Un comnbo di sei frame del video che testimonierebbe le torture nel carcere di Trapani - ANSA
Le carceri intanto restano un buco nero del Paese: gli spazi di vita sono angusti, con 62mila detenuti chiusi in strutture che dovrebbero ospitarne al massimo 51mila (e un tasso di sovraffollamento medio nazionale sopra il 133%); gli impianti sono obsoleti o malfunzionanti, d’inverno si battono i denti dal freddo e d’estate si boccheggia per il caldo; il malessere e il disagio psichico vengono intercettati tardi o non trovano sostegno, anche per la carenza di psicologi e operatori sociali... Un grumo di disperazione che – come Avvenire continua a denunciare – può indurre i più fragili a gesti estremi, sia fra detenuti (81 i suicidi da gennaio) che fra agenti (7 negli ultimi dieci mesi).
Di fronte a tutto questo, e agli spaccati di brutalità svelati dalle indagini, non si può far finta di niente. Occorrono interventi tempestivi ed efficaci, che allevino quel fardello di sofferenza e tensione. Va da sé che certa becera propaganda politica non favorisce un clima sereno. E nemmeno sconcertanti dichiarazioni come quella del sottosegretario alla Giustizia Delmastro, capace di provare «intima gioia» nel far «sapere ai cittadini come non lasciamo respirare» chi è assegnato a regimi carcerari duri.
Se restiamo ai fatti, i dati sulle presenze nei penitenziari mostrano come le misure disegnate finora dal Guardasigilli Carlo Nordio e dal governo Meloni non stiano sortendo effetti adeguati. Da settembre, e fino a tutto il 2025, è in carica un Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, Marco Doglio, che dovrà provvedere «alla realizzazione delle opere necessarie per far fronte alla grave situazione di sovraffollamento». Ha poco più di un anno di tempo per avviare un programma di lavoro annunciato a onore del vero in passato già da altri esecutivi, senza poi ultimarlo. Anche se dovesse riuscire, non è solo con nuove strutture che si favorirà la rieducazione auspicata dalla Carta: servono cure mediche e psicologiche adeguate, percorsi di pena e di lavoro esterni, serve umanità. Perché se, come ammoniva Dostoevskij, il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni, finché le carceri italiane rimarranno un buco nero, il nostro Paese non potrà dirsi davvero e compiutamente civile.