Una sentenza e l'individualismo. Cannabis fai da te? Attenti a dire che non è più reato
Novità sul fronte della droga fai da te? Nei giorni scorsi la Cassazione a Sezioni Unite ha assolto definitivamente un imputato che aveva coltivato in casa qualche piantina di cannabis per farne uso personale. Subito il clamore: rivoluzione, secondo alcuni, desolazione secondo altri. Opposti umori di una svolta che i cronisti dicono epocale, e che incontra reazioni esaltate o costernate. E i titoli affermano sicuri: non è più reato, si può fare, l’ha detto il giudice supremo.
Ma non è esattamente così. Quel che è reato o non reato (cioè la figura, il principio, la fattispecie edittale, la regola insomma, che vale per tutti) lo dice la legge; e il giudice vi è soggetto. Quello che è il fatto storico, la vicenda umana, le sue circostanze, le sue sfumature, la portata e l’intenzione e insomma il suo senso concreto e vitale, quello sì lo decifra il giudice, secondo intelligenza dell’accaduto. E l’accaduto non è mai uguale: si ripete nel genere, è vero, si classifica, s’inquadra, ma sempre si connota nelle sue variabili. Proprio in questo si distingue una legge e una sentenza: la legge è generale e vincolante per tutti, la sentenza è particolare e non vincolante fuori del caso concreto deciso.
È pur vero che esistono le "massime", le formule, i princìpi di diritto dettati dalla Cassazione a imitazione delle regole, e quelli enunciati dalle Sezioni Unite sono le più autorevoli. Ma servono appunto quando i vari giudici della stessa Cassazione sono discordi a interpretare la legge, alcune Sezioni a dire bianco e altre a dire nero. E già queste divergenze ci avvertono come la materia sia trepida e delicata. Non è da ieri che si tribola. Tre anni fa s’era scomodata anche la Corte Costituzionale, che aveva inchiodato al divieto penale la coltivazione anche per uso esclusivamente personale (sentenza n. 109/2016).
E appena qualche mese fa, a luglio, le stesse Sezioni Unite bocciavano il commercio della cosiddetta cannabis light (sentenza n. 30475/2019). E dunque dov’è ora la bussola per orientarci verso ciò che è giusto (perché il giusto è il traguardo verso il quale corrono le leggi, le sentenze, l’impegno comune di chi ha a cuore il bene comune)?
Cosa vuol dire in concreto che se qualcuno coltiva «in minime dimensioni» piantine di cannabis in modo domestico, rudimentale, per farne poi consumo per sé solo, non incorre nei rigori della legge penale? Fra il bianco e in nero di prima, adesso si fa chiarezza: ma grigia. Perché, dite, quante piantine stanno dentro le minime dimensioni o eccedono, o chi giudica cos’è rudimentale – un balcone, un garage, una serra di casa –, e come si fa a sapere che il coltivatore consumerà lui o la farà assaggiare ai suoi ospiti? E chi farà il censimento, se l’andazzo si estendesse, con quale spiegamento di mezzi, si entrerà nelle case (con figure processuali complicate trattandosi di domicilio), e chi farà metro sul rudimento, chi si scervellerà sull’intenzione ex ante?
Piante di marijuana - Ansa
Qualcosa fatalmente si affloscia, nella portata della sentenza. L’uniformità interpretativa non si gioca sul letto di Procuste, ma sulla sterminata casistica della vita. La giustizia vuole buon senso, si capisce; e se una micro vicenda non si spacca in quattro come un capello, non è detto che diventi regola la calvizie generale. Far diventare la droga casalinga una iniziativa ludica indifferente e inoffensiva sempre, sarebbe una ricaduta falsificante. I danni che la cannabis produce sul cervello umano sono descritti dalla letteratura scientifica mondiale come devastanti.
Nell’adolescenza, in particolare, intercettano lo sviluppo delle facoltà cognitive. Se poi si pensa che l’uso personale si affianca alla vita quotidiana, la influenza, modifica le relazioni, turba le emozioni, intercetta la guida dell’auto, si avverte il pericolo di un pensiero normalizzante, di un allarme spento. Le norme sono fatte per arginare un male, per preservare un bene.
Perché la Cassazione ha mollato, nel suo caso? Attendiamo la motivazione. Ma se ripeterà quanto si sussurra, e che qualche sezione ha già detto in passato, cioè che il bene della 'salute pubblica' non è compromesso, ci chiederemo quanto è tenuta cara la salute privata, che pure è stata tenuta in conto. Perché la salute privata è un bene pubblico, e l’art. 32 della Costituzione lo rammenta. Forse il segreto, triste, è che da un paio di secoli e mezzo il concetto di 'individuo' è calato come una lama a frammentarci, a fare di noi una cascata di gocce, incapaci di insieme, indifferenti o interessate secondo vantaggio. E chi ride o piange è affar suo, e chi si droga si droga e chi muore muore.