Opinioni

Intercettazioni. È ancora intercettopoli, stavolta contro la libera informazione

Danilo Paolini sabato 3 aprile 2021

In Italia c’è da augurarsi di non parlare mai al telefono (oppure, con l’uso dei virus informatici detti Trojan horse, di persona o tramite messaggio) con un indagato. Gli ultimi a finire nella rete, spesso a strascico, sono stati numerosi giornalisti delle più diverse testate - anche di Avvenire - che stavano semplicemente lavorando. Contattavano, cioè, fonti dalle quali pensavano di ottenere informazioni e notizie utili per i loro articoli sul traffico di esseri umani dalla Libia verso l’Italia, sulle tragedie del mare che questo provoca e sui soccorsi che vanno a buon fine.

Una di loro, Nancy Porsia, è stata ascoltata e registrata addirittura mentre parlava con il proprio avvocato. Inconcepibile, e intollerabile. Ora quelle conversazioni si trovano negli atti giudiziari messi insieme dalla procura di Trapani nell’ambito del procedimento a carico dei rappresentanti di tre Ong per l’ipotesi di reato di favoreggiamento dell’immigrazione illegale, accusa formalizzata qualche giorno fa dopo circa quattro anni di indagini con una richiesta di rinvio a giudizio per 21 persone. Tra queste non c’è nessuno dei giornalisti intercettati, eppure nelle carte depositate dalla procura figurano, per ciascuno di loro, dati che dovrebbero essere protetti dal segreto professionale.

Dati irrilevanti ai fini del processo. Fa benissimo, perciò, la Federazione nazionale della stampa a chiedere che venga fatta subito chiarezza su 'chi e perché' ha disposto quelle intercettazioni nei giorni in cui cominciava una vera e propria guerra politica, giudiziaria e anche mediatica contro gli operatori umanitari e i giornali (pochi) e i cronisti (non pochissimi né intimiditi) che tenevano gli occhi aperti. «Si volevano scoprire le fonti, violando il segreto professionale?», si chiede il sindacato dei giornalisti. Ma oltre che sul fatto specifico, indubbiamente inquietante per chi considera ancora la libera informazione uno dei democratici pilastri dello Stato di diritto, questa può essere l’occasione per tornare a riflettere sul grande potere della magistratura inquirente e sull’equilibrio che richiede l’esercizio di quel potere.

Una questione scomoda, diciamolo, anche per tanti giornalisti. Soprattutto per quelli che amano pubblicare paginate di intercettazioni. Anzi, di trascrizioni di intercettazioni, che rendono ancor meno il senso delle frasi, il tono delle parole usate e il contesto in cui vengono pronunciate. Non è la prima volta, infatti, che agli atti delle inchieste si trovano sfilze di conversazioni penalmente inutili. Anche private, perfino intime.

Quattro anni fa, nel 2017, il tentativo di porre qualche paletto – che questo giornale, detto per inciso, si è dato da solo e da tempo – fu immediatamente bollato come «legge-bavaglio». Al suo posto c’è ora un’altra legge, in vigore da qualche mese dopo ripetuti slittamenti, che va in senso opposto. Questo per quanto riguarda le intercettazioni. Se invece prendiamo in considerazione i tabulati telefonici (le liste delle chiamate da un dato numero, con i relativi contatti e l’indicazione del luogo da cui sono partite) la situazione è ugualmente critica: il pm può acquisirli con una semplice richiesta al gestore.

Ma all’inizio del mese scorso la Corte di Giustizia della Ue, con una sentenza che boccia la normativa estone (analoga a quella italiana), ha stabilito che una procedura simile può essere legittima per gravi casi di criminalità o pericoli immediati per la sicurezza pubblica, mentre per tutti gli altri servirebbe l’autorizzazione di un giudice terzo. Il nostro Parlamento prenderà atto di quel verdetto e si adeguerà? Di certo c’è che, sempre nei giorni scorsi, la Camera ha approvato (con un emendamento di Enrico Costa alle legge europea) una norma che recepirebbe finalmente la direttiva Ue del 2016 sulla presunzione d’innocenza.

In sostanza, il nostro Paese s’impegnerebbe, tra l’altro, a equilibrare la narrazione a senso unico delle indagini giudiziarie, in cui spesso le ipotesi dell’accusa vengono presentate come verità assolute o sentenze già emesse, limitando perciò anche la diffusione delle intercettazioni e mettendo fine al malcostume delle inchieste con il titolo, magari da film, che già anticipa un giudizio. Accadrà davvero? C’è da sperarlo, nell’interesse di tutti. Anche della magistratura che, turbata dai recenti sconquassi, è chiamata a rilanciare la propria autorevolezza. Da parte nostra restiamo convinti che si possa continuare a fare cronaca giudiziaria in maniera libera ed efficace anche rispettando pienamente le garanzie individuali di ciascun cittadino.