Ritratti. Alberto Cairo, l'uomo delle protesi. «Io quasi Nobel? Che imbarazzo»
Alberto Cairo (a sinistra), con la nazionale afghana di basket in carrozzina
Poteva diventare avvocato, ma all’esame di Stato ha preferito la fisioterapia e la costruzione di protesi per i mutilati. Alberto Cairo, piemontese “naturalizzato” afghano, è uno dei pochi stranieri ad aver ricevuto, nel 2019, la cittadinanza del Paese asiatico, e nemmeno i taleban che da 3 anni governano con pugno di ferro hanno voluto revocargliela. Per oltre 30 anni a capo dei Centri per la riabilitazione della Croce Rossa Internazionale, ha costruito protesi e assistito 240mila feriti di guerra, mutilati e disabili, ed è stato candidato al Premio Nobel per la pace nel 2010 per il suo lavoro, che continua a svolgere anche oggi, a 72 anni portati sportivamente. Ed è riuscito in un piccolo miracolo nell’Afghanistan dei taleban: far giocare a basket anche le ragazze in carrozzina, malgrado lo sport sia loro proibito, presentandolo come fisioterapia. « Di fatto lo è, giusto? », sorride lui, pragmatico e asciutto come ogni piemontese che si rispetti, nell’appartamento milanese in cui risiede quando è di passaggio in Italia, zeppo di affascinanti mobili e suppellettili afghani.
Dottor Cairo, da Ceva in provincia di Cuneo a Kabul, Afghanistan, il passo è lungo. Come è accaduto?
Ceva è le mie radici, ma fin da piccolo sapevo che avrei voluto viaggiare, vedere altri mondi. Trasferirmi a Torino per studiare Legge è stato il primo salto. Per mantenermi lavoravo come telefonista notturno alla Sip. È durata 7 anni. Sono stato fortunato e felice.
Da studente di Giurisprudenza, come ha incontrato la passione della sua vita, la fisioterapia?
Un mio collega della Sip andava al Cottolengo a fare volontariato. L’ho seguito. Ai tempi si diceva che al Cottolengo c’erano i mostri. E invece ho incontrato disabili. E poveri. Ho visto tra loro un signore che facendo cose molto semplici rimetteva in piedi le persone. Era il fisioterapista. Mi è piaciuto quello che faceva.
Cos’è successo dopo la laurea?
La Sip mi offrì un posto da avvocato all’ufficio del personale. Ho lavorato lì per un po’, poi è arrivato il momento cruciale in cui mi sono chiesto: è questo che voglio fare per tutta la vita? Avevo due sogni: i viaggi e la fisioterapia. Ho deciso che volevo metterli insieme. Ho lasciato il lavoro e mi sono iscritto alla scuola di fisioterapia de La Nostra Famiglia a Bosisio Parini. Mi mantenevo con la liquidazione della Sip.
Come l’hanno presa i suoi genitori?
Mia madre mi disse: fai quello che vuoi. Mio padre per alcuni anni quando qualcuno gli chiedeva cosa fa tuo figlio rispondeva: non lo so. Sorvolava.
Prima tappa all’estero?
Ho chiesto alla Nostra Famiglia di poter svolgere un periodo come volontario in una delle sedi nei Paesi in via di sviluppo. Sono capitato a Juba, nel Sud Sudan. Ci sono rimasto due anni e mezzo. Nel 1990 ho finito i soldi e sono tornato. Per quello che ho imparato avrei dovuto pagare io.
Come è arrivato alla Croce Rossa Internazionale?
Ho scritto una lettera. E incredibilmente mi hanno risposto. Ero stato assegnato all’Africa, e invece qualche settimana prima della partenza mi dissero che la mia destinazione era Kabul. Era il 1990 e non me ne sono più andato.
L’Afghanistan era in uno dei momenti più turbolento della sua storia. C’erano i mujaheddin, la guerra civile...
È stato difficile, non tanto per la mole enorme di lavoro quanto perché non avevo mai visto prima feriti di guerra. Mine antiuomo, russe e anche italiane. La fisioterapia inizia subito, si comincia a mobilizzare il paziente appena esce dalla sala operatoria dove ha subito l’amputazione di uno o più arti. In uno stanzone con 80 ricoverati, 75 erano senza almeno una gamba. L’ospedale della Croce Rossa accoglieva i mujaheddin, i soldati governativi avevano le loro strutture.
Accanto all’ospedale chirurgico della Croce Rossa, è sorto un centro di riabilitazione per costruire e riparare le protesi, che lei ha diretto dal ’92. Da allora sotto la sua direzione sono stati aperti altri 6 centri di riabilitazione, in diverse città dell’Afghanistan. È diventato anche un po’ manager?
In Afghanistan è più facile, non devi chiedere permessi. Hai un pezzo di terreno e ci costruisci. Hai bisogno di personale, lo assumi. E va aggiunto che i fondi dalla Croce Rossa arrivavano regolarmente. Dal 1994 i 7 centri oltre ai feriti di guerra si sono aperti a tutte le disabilità, deformità congenite, esiti di incidenti stradali, bambini con la poliomielite o paralisi cerebrali. Poi però non è bastato più.
E cosa serviva?
Reinserimento sociale. I pazienti ci dicevano: grazie per la protesi, ma adesso cosa faccio? Abbiamo introdotto corsi professionali per sarti, imbianchini, e poi microprestiti e lavoro. Abbiamo attuato la cosiddetta discriminazione positiva.
Cos’è la discriminazione positiva?
Nei nostri centri lavorano solo afghani disabili.
Dal 2022, a 70 anni, è in pensione dalla Croce Rossa. Come la vive?
Bene. Ora abito in un appartamento di un quartiere popolare di Kabul, tra gli afghani. Continuo a lavorare come consulente, per i programmi di reinserimento sociale e di cure domiciliari dei paraplegici della Croce Rossa. E da quest’anno sono stato scelto come presidente di Nove Caring Humans, di cui sono socio da anni, un ente del terzo settore che non ha mai smesso di operare in Afghanistan con diversi progetti, soprattutto per le donne, e con l’enorme vantaggio di essere un’organizzazione snella, veloce, a diretto contatto con la popolazione.
Dai bunker della Croce Rossa a un condominio di afghani. Come va la coabitazione?
Sono l’unico straniero. Una sessantina di famiglie con 200 bambini. È bellissimo, di giorno è tutto un gridare, un giocare. Con i taleban la sicurezza è migliorata, ma bisogna stare attenti, di notte meglio non girare a piedi.
Rimarrà per sempre in Afghanistan?
Kabul è casa. Finché posso resto. Tanta gente mi chiede perché ostinarsi, rispondo che proprio adesso che c’è bisogno è giusto restare ed essere utili. Noi non siamo lì per il regime, ma per la gente. Io mi sento in debito. Sono qui da 34 anni e ho avuto tantissimo dall’Afghanistan.
Lei ha ricevuto diversi premi per il suo lavoro, anche una candidatura al Nobel per la pace; come si rimane con i piedi piantati per terra?
La candidatura al Nobel per la pace mi ha imbarazzato. Il Nobel per me è Madre Teresa, Mandela, persone che hanno cambiato il mondo. Io cosa ho cambiato?
Be’, ha ridato piedi o mani a 240mila persone, non è poco.
È il mio lavoro.
Lei non parla mai della sua vita privata. Perché?
Perché non è particolarmente interessante. Lavoro, lavoro, lavoro.
Un primo piano di Alberto Cairo - A.C.
Non ha mai sentito il desiderio di una famiglia sua?
In Afghanistan non è possibile, chi mi avrebbe seguito fin lì? Ho i disabili che ho assistito. Molti di loro mi riconoscono dopo 30 anni e mi abbracciano come un fratello. E ho gli amici. L’amicizia è una forma di amore.
Parla con i taleban?
I taleban sono una fetta molto larga della popolazione afghana, devo confrontarmi necessariamente con loro, pur nella consapevolezza che si tratta di una dittatura e che la mancanza di inclusione per le etnie che non siano la loro, la pashtun, e il trattamento cui sottopongono le donne sono inaccettabili. Ma le organizzazioni come Nove possono continuare a lavorare anche perché i taleban non sono un gruppo monolitico e l’applicazione dei divieti non avviene in modo uniforme.
Come è riuscito a far giocare a basket anche le ragazze disabili?
Nei centri di riabilitazione con palestra i ragazzi giocano a calcetto indoor, pallavolo e pallacanestro. Noi presentiamo gli allenamenti come sedute di fisioterapia, le ragazze disabili vengono due volte la settimana, hanno una allenatrice. Certo, non possono fare competizioni ufficiali, ma giocano tra loro.
Una volta lei disse che sente un senso di ingiustizia per l’Afghanistan. Le accade ancora?
Sì, avverto forte l’ingiustizia delle condizioni in cui versa l’Afghanistan, un Paese dove hanno messo le mani tutti, e ancora continua lo sfruttamento economico delle risorse. Gli afghani sono terribilmente sfortunati. Talvolta provo anche rabbia, perché le persone vogliono fare, vogliono costruire, hanno un potenziale, e invece l’Afghanistan resta uno dei Paesi più miserevoli al mondo. E so che io non posso aggiustare il Paese, ma posso alleviare le sofferenze di alcuni.
Ha detto che l’Afghanistan le ha insegnato molto. Cosa?
Ho imparato a capire la gente, ad ascoltarla. Sono per natura una persona riservata che tiene le distanze. Là il mio carattere è cambiato, ho imparato a condividere e ad accontentarmi dell’essenziale.
Ha avuto momenti di crisi?
Tantissimi. Quando vedi i pazienti in condizioni drammatiche ti chiedi perché. Perché non ci sono altre strutture, perché questa violenza che affligge la gente da così tanti decenni non possa cessare. Ti viene da dire: basta.
Cosa la aiuta a reagire allo scoraggiamento?
Vedere che il lavoro che fai porta qualche frutto, anche piccolo, aiuta tantissimo. E poi lo sport. Per tanti anni ho rifiutato di occuparmene perché mi sembrava un optional tra tutte le emergenze che si vivevano in Afghanistan. Ora invece sono convinto che lo sport sia un diritto fondamentale di tutti. Nelle nostre palestre abbiamo 600 giocatori, di cui 180 sono donne. Un risultato straordinario.
C’è una storia che l’ha segnata nei suoi oltre 30 anni di Afghanistan?
Tantissime. In particolare voglio ricordare Mahmoud, un signore a cui mancavano due gambe e un braccio per colpa dell’esplosione di due mine successive. Chiedeva le protesi e spiegava che senza gli arti non avrebbe più potuto sfamare la sua famiglia. Mi disse: adesso dammi un lavoro, so che sono un avanzo di uomo ma se mi aiuti faccio qualsiasi cosa, anche strisciare per terra. Abbiamo deciso di adattare un posto di lavoro con delle morse speciali: doveva incollare le solette dei piedi artificiali delle protesi e avvitare. C’è riuscito. Lì ho capito che la disabilità la creiamo noi, siamo noi che diciamo: non ce la può fare. Dopo di lui è arrivata la politica della discriminazione positiva.
C’è spazio per la spiritualità nella sua vita?
Senza la spiritualità la vita non è niente.
Come si esce dalla situazione afghana?
Ci si augura che piano piano i taleban si rendano conto che quello che stanno mettendo in atto è autodistruzione. A volte è demoralizzante. Però si deve andare avanti