Opinioni

Lutto. L'addio a Mario Agnes: il timbro di rigore e coraggio

Angelo Scelzo sabato 12 maggio 2018

L’avevo sentito da Pompei, il giorno prima della morte. C’era la Supplica, la preghiera che, nei ventitré anni della sua direzione, si recitava anche nei corridoi de L’Osservatore Romano. Aveva risposto con un grazie pronunciato a fatica, ma con l’intensità di un addio. Sapeva che gli restava poco tempo. Lo sapevano ancora di più i suoi amici, per i quali il lungo decorso della malattia è stata l’ennesima lezione di umanità di un maestro dai modi severi, il tratto austero, il carattere riservato, fin quasi a incutere, non solo a chi lo incontrava per la prima volta, un timore reverenziale.

Anche il fisico, così asciutto da far pensare all’ascesi. Mario Agnes era severo e austero, e finanche arcigno, quando aveva a che fare con i princìpi e le regole, i comportamenti e i modi di agire dei quali era più che un osservante, un 'sacerdote' scrupoloso e zelante. Chi si fermava a questa soglia, forse neppure riusciva a immaginare quale oltre di umanità potesse riservare quel 'professore' (come lo chiamavano tutti) così riservato e discreto, e così fuori dalla mischia da far pensare – altro abbaglio – a qualche punta di orgoglio non tenuta a freno. In realtà era lui a portare volutamente fuori strada, fino a mettere davanti a tutto il più estremo dei pudori, quello dei sentimenti, gli abiti di lusso di cui è rivestito un animo buono e generoso. Agnes era di questa stoffa, difficile a riconoscere all'impronta, ma capace di far ricami e tessere lavori pregiati. La metafora si scioglie subito al cospetto delle due 'opere' principali passate per le sue mani, la presidenza dell’Azione Cattolica italiana, dal 1973 al 1980, e la direzione per oltre un ventennio de L’Osservatore Romano, con la significativa congiunzione della presidenza di due anni alla Nei, la società editrice di Avvenire. Un lungo e ininterrotto itinerario di servizio alla Chiesa italiana e alla Santa sede, svolto in tempi e stagioni diverse: il dopo Concilio, l’eredità di Vittorio Bachelet, la china da risalire dopo i contraccolpi del referendum sul divorzio da una parte; e dall’altra il pontificato di Giovanni Paolo Il nell’orizzonte del nuovo millennio e nel pieno del nuovo assetto internazionale dopo la caduta del Muro di Berlino. Al professore di Storia della chiesa è toccato così raccontare in presa diretta, attraverso i titoli del giornale del Papa, ciò che accadeva e cambiava faccia al mondo.

Fino a quella sera di aprile, quando la notizia fu un annuncio listato a lutto, che corse di mano in mano nella piazza della veglia che aveva accompagnato Giovanni Paolo II nell’ultimo viaggio. Si chiudeva un pontificato, e, per Agnes, già si poteva tracciare il bilancio di un’esperienza vissuta a specchio di quel magistero, con la verità portata a vessillo fino ad agitare, quand’era necessario, le pagine un po’ troppo paludate di un giornale-istituzione con quelle colonne imponenti e austere quasi come il colonnato del Bernini. Era la pace a rompere spesso gli argini e a fare dell’Osservatore un foglio che qualcuno arrivò a giudicare un po’ sopra le righe, come quel titolo, stampato come un manifesto: un «Mai» a caratteri cubitali sopra al sommario «Mai al terrorismo e alla logica della guerra» che i manifestanti contro la Guerra del Golfo, alzavano a mo’ di bandiera.

E i tanti accorgimenti passati in un primo momento inosservati, come la decisione, presa sul momento, di fronte all'inganno di Pinochet di portare il Papa alla finestra del palazzo presidenziale, di non nominare in tutta la prima pagina il nome del dittatore cileno. E il discorso, di proposito non tradotto dal polacco, del generale Jaruzelski che, alla partenza da Varsavia, durante l’ultimo viaggio in Polonia, cercò di stemperare con un intervento non previsto, il forte impatto delle parole del Papa lungo tutto il pellegrinaggio. E ancora il rilievo, fatto filtrare, anche all'interno del Vaticano di una sorta di 'sindrome cinese' imputata al giornale, che non si stancava di schierarsi al fianco dei giovani nella rivolta di piazza Tienanmen.

Un respiro internazionale e, nelle pagine di cronaca, la presa di posizione, sempre più frequente, per qualche fatto considerato minore. Lo stile-Agnes si esprimeva proprio in questa non facile, ma insistita convivenza. In questo senso era un giornale a sua immagine: aperto al mondo, ma attento alle vicende di casa, ai piccoli centri o anche alle piccole diocesi, senza curarsi, anche qui, di qualche accusa di provincialismo. Era un uomo del Meridione, della verde Irpinia, e portava con sé, tutto intero, l’orgoglio delle origini: della terra e, soprattutto, della famiglia, la sua più grande scuola di vita. Era un uomo di parte. La verità, la fedeltà, l’amicizia, il rispetto per le persone da un lato, e i contrari dal lato opposto, pur senza alzare i ponti levatoi di un dialogo mai al ribasso. Anche per questo non solo all’Osservatore è stato una guida forte. Il timbro di Mario Agnes era visibile in ogni tratto, e prima di trasformarsi in titoli o articoli, cominciava a manifestarsi nella riunione del mattino, quando il giornale prendeva forma. Agnes in realtà teneva lezione. Poteva essere il limite di un 'professore' prestato alla carta stampata, si rivelò invece la carta vincente di un comunicatore che aiutava a guardare al di là dei fatti. Colui che saluteremo oggi a Sant’Anna, in Vaticano, affidandolo alle braccia di Dio era soprattutto un uomo di fede . Ed è stato per questo che, entrato da professore al giornale del Papa, si è scoperto poi maestro. Di vita, oltre che di un giornalismo che, alla fine, gli era entrato nel sangue.